Nei giorni scorsi il campione di Losanna si è chiamato fuori dal ristretto club dei migliori e ha rimarcato la superiorità dei Fab Four nei suoi confronti, soffermandosi in particolare sul paragone con Murray. Dal suo discorso, onesto e sensato, si capisce di che pasta è fatto Stan the Man, umile e rispettoso, contraddistinto da un atteggiamento di ricerca più che dalla voglia di sottolineare i risultati ottenuti.
A mio avviso il chiacchierato club dei fantastici quattro rimane un discorso potenziale che non si è del tutto realizzato: purtroppo Murray è stato tradito sul più bello dal suo fisico, il che probabilmente gli ha precluso qualche Slam – a scapito degli altri ragazzini – e un soggiorno più lungo in vetta al ranking. Il rimpianto per lui è davvero concreto, perché a quel punto sembrava avere qualcosa in più, inclusa una decisiva svolta di aggressività nel proprio gioco che l’avrebbe aiutato a ridurre il gap che invece si è sorprendentemente allargato. Guardando i fatti, però, non è giusto mettere tutti e quattro nello stesso club, casomai Andy è stato con pieno merito il primo degli umani del decennio trascorso, che non è poco.
La grande differenza con Stan è stata la continuità di rendimento, che ha portato Andy al numero uno nel novembre 2016, spezzando il dominio ininterrotto della triade che durava dal febbraio 2004, e alla vittoria di 46 tornei, contro i 16 dello svizzero, che ha raggiunto il terzo posto della classifica come best ranking. A favore dello scozzese ci sono anche i due ori olimpici nel singolare, la vittoria nelle finals 2016 e le 11 finali Slam disputate. Dato a Murray quel che è di Murray, possiamo spostare i riflettori su Stan per sottolineare il suo status indiscusso di Quinto Beatle, l’unico giocatore in grado di ritagliarsi uno spazio notevole nonostante l’epoca avara in cui gli è toccato giocare. Se la corsa di Murray non si fosse arrestata bruscamente e avesse tenuto fede alla aspettative, sarebbe Wawrinka il primo degli umani – ma pur sempre il quinto in assoluto, quindi poco cambia.
Intanto c’è l’aspetto tecnico: lo svizzero è un giocatore completo e bello da vedere. Se è il rovescio a una mano a rubare la scena, elegante e potente, non bisogna sottovalutare gli altri colpi, che mettono insieme un repertorio completo come pochi: un dritto robusto, un ottimo servizio e una buona mano nel gioco a rete. Sono stati gli alti e bassi a limitarne i risultati, insieme a una coscienza della propria forza maturata tardivamente.
D’altra parte, per portare a casa un trofeo in quegli anni, dovevi sempre confrontarti con i mostri in assetto da guerra – e giocavano molto di più, senza limitarsi come adesso a una programmazione mirata agli Slam con pochi tornei minori – e così per lui come per altri è stato complicato costruirsi la fiducia. Stan non ne ha fatto un dramma, anzi ne ha tratto una filosofia che contempla la sconfitta non come tragedia ma come occasione di crescita, riassunta nel tatuaggio sul suo braccio sinistro che prende in prestito le parole di Samuel Beckett: Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
E ci ha provato talmente tanto, Stan, da farsi trovare pronto nelle occasioni decisive. Nei suoi tre Major vinti – su quattro finali disputate – non ha approfittato di un vuoto di potere, di un suicidio di massa o di un aiuto divino che gli ha tolto di mezzo i tre bulli del circuito. No. In Australia nel 2014 ha superato Djokovic nei quarti di finale, 9-7 al quinto dopo una lotta estenuante, poi ha battuto in quattro set Berdych in semi e Nadal in finale. Nemmeno il Roland Garros 2015 è stata una passeggiata di salute, con Federer, Tsonga e Djokovic battuti con autorità negli ultimi tre turni lasciando un set a testa al francese e al serbo.
Nel 2016 è stata la volta degli Us Open, conquistati ancora una volta in finale contro il re del ranking Novak Djokovic in fase dominante. Anche l’unico Master 1000 è arrivato grazie a una finale di rango, un derby con l’amico Roger Federer vinto in rimonta in tre set. A questi risultati bisogna aggiungere l’oro olimpico di Pechino in doppio e la Davis 2014, entrambi conquistati in stretta collaborazione con Roger.
Tutti questi indizi costituiscono una prova, la prova di un coraggio fuori dal comune e di un temperamento battagliero che gli hanno permesso di mettere a frutto il proprio indiscutibile talento nel modo migliore. Non bisogna dimenticare che il destino non è stato del tutto clemente con Stan, o meglio con le sue ginocchia, il destro gravemente infortunato nel 2007 e il sinistro nel 2017. Il recupero non è stato facile, specialmente nel secondo caso, con un 2018 nero che l’ha visto precipitare fino al numero 263 della classifica.
Nella scorsa stagione si sono rivisti sprazzi di Stan con i quarti di finali al Roland Garros, persi in una gran partita con Roger dopo aver eliminato Tsitsipas negli ottavi 8-6 al quinto in oltre cinque ore. Nella seconda parte di stagione ha tenuto a battesimo l’avventura Slam di Sinner, concedendogli un set al primo turno degli Us Open – conclusi ai quarti di finale contro Medvedev – per poi impartirgli una dura lezione di vita in semifinale ad Anversa, torneo perso al terzo contro Andy Murray. Il 2020 sembrava averci restituito un buon Wawrinka, con i quarti di finale agli Australian Open, poi è arrivato il virus a sparigliare le carte.
In un mondo ideale meriteresti un ultimo acuto… c’è un piccolo vantaggio a condividere il viaggio con un compagno ingombrante come Roger: la dimostrazione che a trentacinque anni si può ancora sognare qualsiasi cosa.