Mentre, pallido e assorto, riflettevo sui massimi sistemi nella latrina di uno dei peggiori bar di Collecchio, una voce gracchiante disturbò la mia quiete. “Maria Sharapova sta per tornare!”, tuonò lo spettro di Renato Brunetta in succinto negligé, agitando con impeto solenne quelle che sembravano maracas brasiliane. Mi alzai, e feci appena in tempo a terminare il mio umanissimo processo, per poi tirare convulsamente fuori dalla tasca il cellulare di ultima generazione (ultima, se gli esseri umani campassero come le sequoie) per controllare le notizie. Dunque era vero. “Il Tas ha ridotto la pena di Maria Sharapova da 24 a 15 mesi“, recitavano titoloni maiuscoli di tutti i giornali e giornaletti. “Maria Sharapova tornerà a giocare a partire dal 26 aprile 2017!”. Grida di giubilo, accompagnate da cori angelici, fiati di trombe, come a preannunciare l’avvento della giustizia divina.
Apro una piccola parentesi: ho sempre avuto dubbi sulla buona fede di Sharapova. Non riesco a credere che la tennista più nota del mondo, star internazionale e icona da milioni di dollari, non abbia attorno un esercito di medici, preparatori, assistenti, manager, consulenti che controllano quasi ogni aspetto della sua vita. Figuriamoci della sua carriera sportiva, e di tutto ciò che è connesso: allenamenti in campo, esercizi in palestra, cibo, psiche, farmaci, e quindi meldonium. Non posso credere che Maria non abbia semplicemente notato l’avviso della Wada e l’aggiunta del meldonium nella lista delle sostanze proibite a partire dal 2016. Non ce la vedo proprio Maria, all’interno della cameretta a tema Hello Kitty mentre apre la casella di posta per verificare se ci sono news da parte dell’Agenzia anti-doping. Figuratevi la scena: un bel giorno Masha apre la mail della Wada e scorre, col ditino, la lista delle sostanze illecite, una per una; arrivata alla lettera “L”, deve correre in cucina perché sente fischiare il bollitore del thé; dopo una lauta merenda con la torta della nonna, si stende sul divano a vedere l’ultimo episodio di House of Cards. Segue sonnellino ristoratore. Spoiler alert: non si ricorderà più di proseguire la lista delle sostanze vietate e quindi le settimane successive continuerà a trangugiare meldonium come se fossero tic tac. Nun ce credo tanto. Chiusa parentesi.
Lo ammetto: prendere una posizione, ormai, è inutile. Sharapova sta pagando la sua pena, ed è semplicemente inutile e aleatorio, oggi, disquisire se è troppa o troppo poca. Vale la pena piuttosto soffermarsi sulla genialità dei consulenti di immagine di Maria Sharapova. Questi Steve Jobs della comunicazione sono infatti riusciti a salvare la loro illustre protetta da uno scandalo che potenzialmente avrebbe distrutto la carriera e la reputazione di qualsiasi sportivo. Con studiatissime ed efficaci strategie, hanno costruito una narrazione impeccabile della campionessa vittima e bistrattata, che da questa vicenda forse ne uscirà fuori illesa, forse addirittura rafforzata.
In primis, la conferenza stampa dello scorso marzo: con un prodigioso coupe de théâtre, Maria ha anticipato il comunicato della Wada annunciando lei per prima la sua colpevolezza. Li ha bruciati sul tempo. Con gravità e mestizia ha annunciato al mondo il suo errore, frutto di un’imperdonabile distrazione, e di non sapere quale sarà il destino che dalla latrinosa stanza dei bottoni decideranno per lei. Povera cucciola, hanno subito pensato i molti che l’hanno difesa, sostenuta a spada tratta sin dall’inizio. Durante i mesi di assenza forzata, in attesa della decisione, Masha ha ribadito il suo “profondo amore per il tennis”, la “preoccupazione” di non poter giocare più quello sport che le ha dato tanto nella vita. Di quanto le sue giornate siano spesso “molto dure, difficili da sopportare”. Eppure nel contempo ha continuato a dare un’immagine serena e positiva di sé, come a dire: sono mortificata, ma la vita va avanti. Sui social network la nostra ha postato allegre foto mentre gioca a racchettoni in spiaggia, si dà al golf, promuove le sue note caramelle. Persino all’indomani della prima, pesantissima squalifica di due anni, come a dire: mi importa del tennis, ma posso fare anche altro. Come tornare sui banchi di scuola, alla prestigiosa Università di Harvard, o svolgere uno stage negli uffici della NBA.
Se sei Maria Sharapova, di scelte non ne hai mai una sola, ma tante. Da vera ed esperta diva quale è, senza dubbio consigliata da un team di professionisti, Masha si è comportata nel migliore dei modi, in barba ai compassati giudici del Tribunale sportivo. Da una parte ha fatto il ruolo di una vittima pentita, rea confessa inconsolabile e sofferente, privata della sua unica vera ragione di vita; dall’altra, da star ricca, bella e famosa quale è ha continuato a fare un sacco di cose. I want you but I don’t need you, diceva il titolo di una canzone dei Momus di qualche anno fa. Lei lo ha suggerito, neanche troppo implicitamente, al mondo del tennis. E ha finito per convincere tutti che aveva ragione lei.
La favola nera di Maria Sharapova si è infine compiuta con un radioso happy end, degno di un blockbuster americano. “È il più bel giorno della mia vita, non vedo l’ora di tornare a giocare!”, ha esclamato su Facebook la bella Masha. Nella mia mente immagino che abbia pronunciato queste parole con lo stesso tono stridulo ed estasiato di una reginetta di bellezza eletta durante il ballo della scuola, mentre grida ipocritamente il suo stupore: “N-non me l’aspettavo!”. La bella dama è stata liberata e i mostri, chiunque essi siano, sono stati in parte sconfitti, smentiti. Hallelujah.
Non fraintendete le mie parole: senza dubbio è un bene che Maria Sharapova torni a giocare. Per quanto vedere una sua partita, per me, sia peggio di una scartavetrata di cosiddetti le sue urla mi ricordano i soavi ruggiti di Linda Blair ne L’Esorcista. Diventa un bene, se confrontato con l’attuale deserto del circuito Wta. Se escludiamo l’immarcescibile Serena, oggi non esistono campionesse, ma solo ottime e buone giocatrici al top delle classifiche. L’epoca d’oro che c’era fino a dieci anni fa, quei tornei in cui potevi trovare le Williams, Clijsters, Henin, Hingis e Mauresmo nello stesso torneo Slam, non esiste più. Oggi, al confronto, la condizione è stagnante e nessuna tennista sembra in grado di ereditare quell’aura di mito, personalità, invincibilità e fierezza che possedevano quelle grandi atlete. Nessuna, a parte Maria Sharapova. Che piaccia o non piaccia, ha vinto Wimbledon a 17 anni e ha conquistato altri quattro Slam, nonostante una carriera costellata da infortuni.
Sul piano mediatico, naturalmente, Masha straccia da sola tutte le colleghe. Non è un’iperbole dire che soprattutto grazie alla sua presenza l’interesse per il tennis femminile si è mantenuto alto anche fuori dalla cerchia di appassionati e addetti ai lavori. Non a caso, durante questi mesi di assenza forzata, nelle tv e nei giornali si è probabilmente parlato più di lei che di tutte le colleghe attive in campo. Maria, che lo si voglia o no, è un’icona, una star. E il suo ritorno alle competizioni non può che ravvivare esponenzialmente l’attenzione del circuito Wta, con grande sollievo di organizzatori, addetti ai lavori e giornalisti del settore. Detto in sintesi: la Sharapova non ha bisogno del tennis ma il tennis ha bisogno di lei.
In tutto il mondo, anche tra i semplici appassionati, è tutta una gioia e un tripudio. Una volta appresa la riduzione della squalifica, a Mosca hanno organizzato una mastodontica parata, hanno portato l’angelica siberiana nelle pudiche vesti di Santa Rita da Cascia su una carrozza dorata, osannata e venerata dalla folla. “Masha, Masha!”, urlano tutti con le lacrime agli occhi in un ecumenico volemosebbene.
In conclusione: Maria Sharapova è uscita dal sua girone dantesco da vera diva qual è sempre stata, resuscitando dalle proprie ceneri (quasi) senza un graffio. Con passo regale, che sia su tacco dodici o su scarpe da tennis, è pronta per riprendersi la scena, i riflettori, vagonate di sponsor e di fan, vittorie, tutto. Chapeau, Masha: ti aspettiamo al Foro Italico.