Sono rimasti in pochi alla “Doctor’s Cave Beach”. Il sole è ormai sceso e i turisti hanno preferito dirigersi altrove. Un bagnino, con il suo rastrello consumato dalle stagioni, sta sistemando la sabbia nelle prime file della spiaggia. Gli ombrelloni sono già tutti belli che chiusi, le sdraio riposte nel gazebo verde smeraldo. Inge distoglie gli occhi da quell’uomo solo quando anche l’ultima rastrellata è stata data. Ora non c’è che l’orizzonte da mirare, chiedendosi quale futuro avrebbe atteso la famiglia Brown.
Un sorso di Red Stripe, un sospiro e una smorfia. Questo è l’iter di Inge, visibilmente dubbiosa sull’avvenire. Una mano si poggia improvvisamente e dolcemente sul fianco destro della donna; è quella di Leroy, che ha raggiunto la moglie dopo la sua consueta pedalata serale. “Dobbiamo tornare a Celle, Leroy. Dobbiamo farlo per lui, qui non ha futuro come tennista”.
Già, se Dustin vuole giocare seriamente, quello non è il luogo ideale, non è la nazione giusta. Calcio, cricket e, naturalmente, atletica. Non c’è spazio per altri sport in Giamaica. A Montego Bay, poi, non parliamone: pochi campi, pochi tennisti, non uno straccio di allenatore. “Amore, anche a tornare, non avremmo i soldi per farlo girare per l’Europa. Almeno qui la vita costa poco”, risponde Leroy.
Lì non c’è speranza per un giovane che vuole emergere nel tennis, la Federazione, se così si può chiamare, ha fatto spallucce troppe volte alle richieste di aiuto, di sostegno. Non ci sentono proprio. Ma l’osservazione di papà Leroy non è sbagliata. Il conto in banca dei Brown non mette di buonissimo umore e spedire il figlio ai quattro angoli del Vecchio Continente costa: alloggi, iscrizioni ai tornei, materiale e cibo non li regala nessuno.
“Un camper”, incalza Inge. L’uomo, in risposta, strabuzza gli occhi e aggrotta la fronte. “Sì, Leroy, un camper è la nostra salvezza. Dustin potrà risparmiare sulle spese di trasporto, sugli hotel e persino sul mangiare, perché ne prenderemo uno con i fornelli”.
E il Volkswagen che mamma e papà regaleranno a Dustin Brown sarà proprio come lo aveva descritto qualche mese addietro Inge. È il 2004, quando i Brown decidono di tornare a casa loro, in quella Celle che ha dato i natali a Dustin, in quella Germania che lo accoglierà, anche sportivamente, sotto la bandiera tricolore. È l’inizio del magnifico e quasi fiabesco percorso che “Dreddy” intraprenderà alla guida del suo VW.
Su e giù per l’Europa con un unico obiettivo: mettersi in mostra nei piccoli tornei, intascando più soldi possibili. Una vera e propria lotta di sopravvivenza: accaparrarsi parte del prize money di un torneo significava poter proseguire la corsa, uscire prematuramente indicava un solo destino, tornare a casa.
Nel frattempo, spese ridotte all’osso. Dustin dorme nel camper, cucina nel camper e lavora nel camper. L’esperienza lo rende imprenditore di se stesso, tanto da arrotondare accordando le racchette ad altri giovani tennisti in cerca di fortuna. Sono troppi i 20 euro che chiede l’addetto ai lavori del torneo? Nessun problema, nello sgangherato quattro ruote te la puoi cavare con 5 euro. Sei andato troppo avanti nel torneo e non hai i soldi per un’ulteriore notte nell’albergo? Bussa al finestrino, Dustin non ti lascia passare la notte al gelo.
In quegli anni si forgia il gioco di Dustin. Un gioco non convenzionale, sfrontato, quasi un po’ sfacciato. Sempre all’attacco, sempre alla ricerca del punto spettacolare. Perché i pochi spettatori presenti sui campetti di periferia hanno pagato e lui non li vuole far uscire dal campo scontenti. Non può passare inosservato il ragazzo dall’indole caraibica e dalla precisione teutonica. I rasta attorcigliati che gli accarezzano il viso sono lunghi quanto la strada che ha fatto per raggiungere quei palcoscenici, il suo look pittoresco, combinato alla sua alta statura, risplende in mezzo a tutti quei ragazzi che incrociano la racchetta con Brown. Tutti bravi, tutti eleganti, tutti vogliosi di emergere, tutti uguali.
Per quattro anni la sua vita è questa: un camper e qualche racchetta. Una corsa all’oro tra gomme bucate, panne improvvise e cartine geografiche da consultare. Ma il nirvana che lo attende ha in serbo per lui molto più di una pepita da pochi grammi, c’è tutta una fortuna da dissotterrare da un prato verde. Non è un prato qualunque, è un prato londinese di un’erba preziosissima. È il centrale di Wimbledon, la mecca.
È il luglio del 2015 e il sole di Londra sta per fare spazio a un uragano improvviso. Improvviso, non inatteso. Qualcuno nei principeschi salotti di Wimbledon l’aveva detto con quel tipico ghigno british: “Occhio…”, ma erano in pochi a crederci davvero.
Dustin Brown è al secondo turno dei Championship e sta per sfidare sua maestà Rafael Nadal. Il tedesco si presenta in campo come se stesse ancora passeggiando nei pressi del Castello della sua Celle: delle cuffie rosse che gli iniettano nell’anima della musica reggae, indispensabile per essere se stesso, gli impediscono forse di godersi al massimo il boato del Centrale.
Riscaldamento di rito, poi si inizia. Servizio centrale, avanzata a rete, smorzata di diritto, 15-0. “Typical Dustin Brown point”, sussurra in telecronaca il cronista inglese. Il primo quindici lo porta a casa Dustin, che ripete l’esercizio in modo perfetto con il secondo servizio: 30-0 Brown. Prima di servizio, fallo. Seconda di servizio: ace. “It was a second serve?” Sì, era una seconda, ma “chissenefrega”, sembra pensare Dustin. Dopo tre servizi centrali, ecco quello a uscire, ma la sostanza non cambia: salita a rete e smorzata: 1-0 Brown.
Non è solo il primo punto del match. È l’inizio dell’incubo del maiorchino. Serve and volley, drop shot, pallonetti e risposte al fulmicotone sono le armi che Dustin Brown ha preparato al meglio per affrontare lo spagnolo, che perde il primo set in maniera eloquente: colpendosi la gamba nel tentativo di rispedire al mittente l’ennesimo bolide giunto dall’altra parte del campo. 7-5 Brown.
La voglia di non mollare di Nadal lo porta a vincere il secondo set 6-3, ma non è l’inizio di una rimonta per molti ovvia. Brown trasforma il campo più importante del tennis mondiale nel suo parco divertimenti. Il suo modo di giocare è del tutto inusuale, la platea assiste a colpi quasi da oratorio, che mandano in tilt l’avversario, il quale cede il servizio nel 5o gioco del terzo set. L’incubo è più reale che mai. Brown vince 6-4, ed è a un solo set dal passaggio del turno.
Spaesato, falloso ed estremamente nervoso, Nadal inizia il set del non ritorno come peggio non avrebbe potuto fare: cedendo la battuta. La quarta frazione scivola via fino al decimo e decisivo gioco. Brown serve per il match. Nadal non ha nessuna intenzione di richiudere tutti i suoi tic nel trolley da imbarcare sull’aereo che lo dovrà riportare a casa. Primo servizio: out. Seconda: doppio fallo. 0-15. Anche Brown dimostra di essere umano. L’ennesimo serve and volley eseguito magistralmente rimette tutto in parità. 15-15. Si torna a servire da destra. La prima è tagliente e a uscire, Nadal ci arriva, il suo rovescio è piuttosto alto. Brown, salito a rete, non ci pensa due volte: volée aerea con salto e rovescio potente dall’altro lato del campo. Nadal accende il motorino e ci arriva con una guizzo dei suoi, ma il suo diritto in recupero finisce di poco a lato. 30-15. È il colpo della resa.
Il punto successivo è semplice e ingiocabile. Servizio a uscire, il mancino non riesce a controllare la risposta, che finisce abbondantemente larga. 40-15. Due match point. Qui si potrebbero scrivere tante ovvietà, tante parole scontate. Si potrebbe scrivere uno scontatissimo “e qui Dustin Brown non può che ripercorrere mentalmente il suo passato, gli anni in camper, i campi sconnessi della Giamaica…” Eccetera, eccetera, eccetera.
Non è così. Il tedesco non lascia trasparire alcuna emozione. Uno sguardo a Nadal, servizio chirurgico a uscire, ace. “Game, set and match Brown”, urla dal seggiolone l’arbitro. Il “Rafa Nadal out at the Championship” detto dal cronista suona come la lettura di una sentenza in tribunale. Omicidio premeditato, l’accusa rivolta a Brown. Premeditato esattamente un anno prima, quando nella “sua” Halle aveva fatto fuori il maiorchino sull’erba tedesca. L’uomo dai rasta ci ha preso gusto, i genitori ci avevano visto lungo.
Il Nostro ha poi raggiunto e navigato attorno alla top 100 a lungo, prima che i problemi fisici gli impedissero di giocare un 2018 all’altezza, facendolo restare ai box a lungo. Ma quest’anno è tornato a risplendere. Ci si è accorti nuovamente di lui in Costa Azzurra, sulla terra del Challenger di Mouratouglu giocato e vinto in aprile. Cambia la superficie, ma non lui. Lui è sempre lo stesso. Giocate e numeri da applausi, avversari sconfitti a suon di pallonetti e smorzate azzardate. Dopo tre anni, dreddy è tornato a vincere un torneo e siamo certi che non appena ne avrà l’occasione, andrà alla caccia di qualche altro scalpo d’oro.
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