Melbourne, 27 gennaio 2002. È un lob accarezzato da Marat Safin e svanito di un soffio oltre la riga di fondo campo il punto che coincide con l’apice della carriera di Thomas Johansson. 3-6 6-4 6-4 7-6 il lasciapassare attraverso cui l’allora ventisettenne di Linkoping è entrato nella storia dell’Australian Open, terzo svedese dopo Stefan Edberg e il suo idolo d’infanzia Mats Wilander. Affinché si aprissero i cancelli dell’Olimpo, al di là della cui inferriate dimorano gli ammessi al Club dei vincitori di una prova dello Slam, Thomas Johansson si è affidato ai proverbiali nervi saldi, all’impeccabile lucidità mentale, ai fondamentali solidi che da sempre hanno sostenuto il suo tennis lineare, avvalorato a tratti da quel pizzico di coraggio che a Melbourne sempre lo ha sostenuto, sospingendolo verso e attraverso quella che appariva una finale già scritta nella cabala in quanto gli dei del tennis gli avevano offerto in dono il figlio prediletto di quel paese, la Madre Russia, spesso costretta a piegarsi al suo cospetto.
Nato il 24 marzo del 1975, a cinque anni Thomas ha già in mano una racchetta. È suo padre Kristen ad assemblare, pezzo dopo pezzo, il bagagliaio tecnico di quel ragazzino esile, taciturno, dotato di un’intelligenza tattica esemplare. E’ in occasione dei Campionati Europei under 14, dove Thomas domina sia la competizione in singolare che in doppio insieme a Magnus Norman, che molti intravedono nel giovane svedese un potenziale erede dei suoi illustri predecessori. Eppure già tra gli juniores non riesce a brillare, il troppo attendismo ne limita le potenzialità, il carattere docile va a cozzare contro l’agonismo esasperato dei suoi coetanei. Tra i professionisti il cammino si prefigura in salita sin da subito.
Per entrare stabilmente tra i top 100 deve attendere il luglio del 1996, stagione in cui raggiunge i quarti di finale a Bastad e le semifinali sia a Singapore che a Stoccolma ottenendo qualche scalpo di prestigio, da Richard Krajicek ad Andrei Chesnokov a Gregg Rusedski. Il primo titolo ATP Thomas Johansson lo stringe in pugno il 16 marzo 1997 a Copenaghen, sul ceco Martin Damm. La settimana dopo concede il bis a San Pietroburgo; dove lascia giusto un set per strada contro il francese Stephane Simian, per poi concedere le briciole a Olivier Delaitre, a Alexander Volkov, a Michael Stich e, in finale, a Renzo Furlan. L’ascesa dello svedese procede graduale con le finali raggiunte a Stoccolma, battuto da Todd Martin, ed a Rotterdam, dove prima di cedere a Jan Siemerik piega uno dei favoriti Evgeny Kafelnikov. Sul russo, Thomas riporta anche un’altra importantissima vittoria agli ottavi all’US Open dove lo supera per 3-6 6-3 6-3 7-6 prima d’inchinarsi dopo oltre tre ore di battaglia a Mark Philippoussis ai quarti con il punteggio di 4-6 6-3 6-7 6-3 7-6.
Il nome di Kakelnykov riappare in un’altra importante tappa della carriera dello svedese: all’ultimo atto dei Canadaian Open a Montreal, è infatti l’ex numero uno del mondo a soccombere a Johansson. La musica si ripete anche al secondo turno di Wimbledon 2000, dove Thomas sconfigge il russo per poi fermarsi agli ottavi contro Patrick Rafter, e nella finale di Stoccolma dove, dopo essersi imposto sul tedesco Christian Vinvk ed i connazionali Thomas Enqvist, Jonas Bjoprkman e Magnus Norman, ha annientato Kafelnikov per 6-2 6-4 6-4. Lo svedese non lascia in pace il Principe russo nemmeno nel giugno 2001 sull’erba di Halle, torneo che poi si intasca prevalendo in finale su Fabrice Santoro. Una stagione quella, che vede Thomas in formissima sul manto verde. La doppietta conseguita la settimana seguente a Nottingham viene però un po’ sminuita dal secondo round rimediato a Wimbledon dove, complice la sfortuna, cozza contro un giovanissimo Andy Roddick che lo stende per 7-6 6-1 4-6 7-6.
Paradossalmente non sarà il trionfo a Melbourne ad innalzare Thomas Johansson verso il suo best ranking, consistente nel settimo gradino assoluto, bensì una semifinale in quel di Dubai ed un quarto a Montecarlo, Principato dove tra l’altro ottiene la residenza. È un infortunio a un piede a condizionare la restante parte del 2002 per colui che ben presto viene definito «Il campione slam più debole di tutti i tempi». Thomas va infatti a sbattere contro batoste di ogni tipo seguite da un lungo periodo di stop. Se a gennaio 2004 il computer lo piazza al n° 519, dopo le semifinali afferrate a Miami ed a Toronto, la finale raggiunta a Nottingham e una strepitosa rimonta inflitta ad Andre Agassi in finale a Stoccolma a fine anno il ranking di Thomas torna a respirare l’aria dei piani alti.
Un ritorno ai vertici che viene consacrato dalla semifinale di Wimbledon, dove viene battuto 6-7 6-2 7-6 7-6 da Andy Roddick. Senza più Safin e Kafelnikov da schiacciare, Thomas deve quindi accontentarsi di andare a prendersi l’ultima grande soddisfazione della sua carriera a San Pietroburgo, dove regola nell’ordine Philipp Kohlschreiber, Andrei Pavel, Greg Rusedski, Fernando Verdasco e Nicolas Kiefer. Un suolo, quello russo, che gli regala l’anno seguente un’altra finale, persa in quell’occasione da Mario Ancic che, ironia della sorte, durante un allenamento lo colpirà involontariamente a un occhio con una pallata provocandogli il distacco della retina. Tra Ivo Karlovic che gli vieta l’ultima gioia nell’adorato cemento indoor di Stoccolma, su cui già aveva esaltato due volte e dove perde la seconda di quattro finali, ed il piede che ricomincia a perseguitarlo nel maggio 2008 Thomas Johansson produce un acuto in occasione della World Team Championships dove all’ultimo round, da numero 67 del mondo, zittisce, nemmeno a dirlo, un top 30 russo, Igor Andreev.
Il ritiro per Thomas arriva nel 2009. Un vuoto riempito dalle tante passioni che animano la sua indole sensibile: dai libri di Henning Mankell alla fotografia, dalla musica dei Depeche Mode e degli U2 al collezionare in dvd tutte le stagioni della sua serie tv preferita Friends, dal seguire assiduamente la sua squadra di hockey del cuore, il Linkopings HC al trascorrere serenamente le sue giornate insieme alla moglie Gisella Kaltencher. Un addio alle armi accolto probabilmente con un metaforico sospiro di sollievo da parte della Russia, a cui Thomas avrà replicato limitandosi ad uno dei suoi discreti e raffinatissimi sorrisi.