Era il Febbraio del 1991 ed io avevo solo 12 anni, ma il tennis era già la mia vita. Mio nonno, che vendeva elettrodomestici, sistemò su una seggiola della sua camera da letto un piccolo televisore in bianco e nero, e lo sintonizzò su TeleCapodistria, che trasmetteva in diretta la finale del torneo ATP di Rotterdam fra Ivan Lendl ed il nostro Omar Camporese. Con addosso il mio completino di Camporese nuovo fiammante, decorato con forme geometriche fatte con quadrati di diversi colori, guardavo il match, seduto in un religioso silenzio.
L’estate precedente Omar, classe ’68, si era a lungo allenato presso Le Pleiadi di Moncalieri con Riccardo Piatti, e quell’allenamento sembrava aver regalato al circuito e all’Italia un giocatore nuovo. Omar inizia infatti il 1991 superando due turni all’Australian Open, per poi giocare contro il futuro vincitore Boris Becker il match che per 18 anni è stato il più lungo nella storia dello Slam australiano: 5 ore e 12 minuti, 14-12 Becker al quinto set ed una girandola di emozioni. Non si può
dimenticare il 22mo game del parziale decisivo dove, con Becker in vantaggio 11-10, 40/0 e servizio, Omar giocò 5 risposte consecutive da fantascienza, annullando 3 match point sul servizio dell’avversario, controbrekkando e facendo impazzire il pubblico di Melbourne.
dimenticare il 22mo game del parziale decisivo dove, con Becker in vantaggio 11-10, 40/0 e servizio, Omar giocò 5 risposte consecutive da fantascienza, annullando 3 match point sul servizio dell’avversario, controbrekkando e facendo impazzire il pubblico di Melbourne.
[fnc_embed]<iframe width=”560″ height=”315″ src=”https://www.youtube.com/embed/jA-LRs8FTbc” frameborder=”0″ allow=”autoplay; encrypted-media” allowfullscreen></iframe>[/fnc_embed]
Come già detto, Omar perderà quel match, ma alla stretta di mano finale Becker sollevò anche il braccio di Omar in segno di vittoria e soprattutto di rispetto, sussurrandogli “sei un giocatore incredibile!”. E in barba a tutti quelli convinti che il match si fosse protratto sino al quinto solo perchè Bum Bum aveva sottovalutato il suo semisconosciuto avversario, Camporese rispose poche settimane dopo nella Westfahlenhalle di Dortmund, in coppa Davis, portandosi 2 set a 0 contro il tedesco, per poi purtroppo farsi rimontare (non senza polemiche su un arbitraggio non all’altezza).
Fino a Rotterdam 1991, Omar aveva disputato una sola finale di un torneo ATP, a San Marino un anno prima, persa per 6/3 6/3 contro Perez-Roldan. All’inizio del torneo olandese era n.42 del ranking mondiale – quindi nemmeno figurante fra le teste di serie – e veniva da 3 tornei successivi alla sfida di Davis in Germania (Milano, Bruxelles e Stoccarda) giocati sottotono. Non si può dire che il suo cammino verso la finale contro Lendl nella terra dei tulipani fosse stato agevole: un primo turno insidioso vinto in 3 set contro il tedesco Jelen; due vittorie in 2 set contro l’austriaco Antonisch ed il ceco Novacek; una battaglia vinta per 6/7 6/2 7/6 contro il tennista di casa Paul Haarhuis, in cui ricordo perfettamente Omar, dopo un errore gratuito, lamentarsi, pizzicato dai microfoni a bordocampo: “un’altra settimana così e vado in rovina!”.
Ivan Lendl si presentava alla finale di Rotterdam all’età di 31 anni e forse, anzi probabilmente, già nella fase calante della sua splendida carriera, ma non si può dire che non fosse ancora estremamente competitivo: n.3 del mondo, finalista agli Australian Open (sconfitto da Becker), e vincitore dei tornei di Memphis e Philadelphia; ovviamente era lui quello nettamente favorito fra i due. Il primo game del match è subito decisivo, perché Camporese perde il servizio e regala il break di vantaggio al ceco, che lo manterrà per il resto del set, senza concedere ad Omar occasioni in risposta; Lendl chiude 6/3.
Nel secondo set però, Camporese si riprende, ritrova gioco, lascia andare il braccio ed è solido con il servizio. Poi sul 4-4, con un game esemplare strappa per la prima volta nel match il servizio a Lendl, che però da fighter quale è piazza il contro-break subito, fino a che si arriva ad un giusto tie break. Qui Lendl commette un paio di errori di troppo, e Camporese gioca due punti splendidi di fila, conquistando il breaker ed il secondo set, e prendendosi gli applausi degli 8000 presenti nell’Ahoy Sports Palace.
Malgrado Lendl sia furioso con il giudice di sedia, mantiene la concentrazione, piazza il break in apertura del terzo parziale e lo mantiene fino al 5/4, quando serve per il match. Sembra finita, ma il bolognese salva un match point e anche grazie ad un paio di gratuiti di Lendl strappa il controbreak portandosi sul 5-5. Di nuovo il pubblico pregusta il tie break, che puntualmente arriva. Il tie break è un festival dell’errore, probabilmente a causa della tensione: in particolare sul 3-3 Lendl prima mette in rete un dritto senza motivo, poi sbaglia uno smash facilissimo. Camporese sale 6-3 e ha 3 championship point; spreca il primo, ma poi sul 6-4 chiude: Lendl serve al centro, salvataggio di Camporese, Lendl deve solo chiudere a rete con l’avversario fuori causa, ed invece gioca un goffissimo drop shot, rimanendo vicino al seggiolone dell’arbitro senza tornare al centro. Omar ci crede, corre incontro alla palla e con lo slice di rovescio in recupero rimette la palla nel campo lasciato scoperto da Lendl, immobile quasi ad aspettare la stretta di mano finale.
[fnc_embed]<iframe width=”560″ height=”315″ src=”https://www.youtube.com/embed/0uiuVRmoank” frameborder=”0″ allow=”autoplay; encrypted-media” allowfullscreen></iframe>[/fnc_embed]
Si inginocchia Omar Camporese, così come mi inginocchiavo io 12enne davanti a quella piccola TV in bianco e nero. Il bolognese alza le braccia al cielo sorridente: è lui il campione dell’ ABN AMRO World Tennis Tournament 1991, partendo da unseeded player e battendo il finale il n.3 del mondo. “Mi sembra di sognare” dichiarerà poco dopo. E sarà quello il picco della sua carriera, che purtroppo non toccherà mai più questi livelli di eccellenza. Pochi mesi dopo salirà, per poche settimane, al n.18 del mondo; l’anno dopo vincerà il suo secondo ed ultimo titolo ATP in singolare a Milano battendo Ivanisevic in finale, e sarà protagonista assoluto di Davis contro la Spagna vincendo 3 incontri su 3; vivrà anche la tristemente nota “palude di Maceiò” al turno successivo di Davis in Brasile, giocando un singolare di ben 6 ore e 6 minuti. Poi la maledetta epicondilite, qualche apparizione negli anni successivi ma mai ai livelli di prima, e poi l’ultimo incredibile acuto, il canto del cigno a Pesaro nel 1997, quando da n.156 del mondo rimonta da due set a 0 sotto e batte lo stra-favoritissimo Carlos Moya: non ci credeva nessuno, a parte Panatta che lo voleva fortemente in squadra. Omar si ritirerà nel 2001, ma l’Italia del tennis non lo ha dimenticato.
Eppure parliamo di un giocatore con all’attivo 2 soli titoli in singolare in carriera su 3 finali giocate, che si è spinto al massimo fino al quarto turno in uno Slam, e con un best ranking di n.18 al mondo. Ma le sue imprese di Davis, le maratone di 5 set contro Becker, i match point annullati, quel turbodritto anomalo che lasciava di sasso i suoi avversari, la sua faccia pulita, il suo saper
giocare alla pari con i migliori, cercando di faticare non troppo (Omar odiava la fatica) ma lasciando andare il suo incredibile braccio, sono emozioni che chi lo ha visto giocare in quegli anni, come me, non può non ricordare. Perché a volte un atleta resta nella memoria e nel cuore degli sportivi non per il numero di trofei che ha vinto, ma per le emozioni che ha saputo regalare.
giocare alla pari con i migliori, cercando di faticare non troppo (Omar odiava la fatica) ma lasciando andare il suo incredibile braccio, sono emozioni che chi lo ha visto giocare in quegli anni, come me, non può non ricordare. Perché a volte un atleta resta nella memoria e nel cuore degli sportivi non per il numero di trofei che ha vinto, ma per le emozioni che ha saputo regalare.
Gabriele Congedo