Mario Belardinelli, credeva negli astri. Lui per primo vide in me una scintilla. Lo chiamano talento, lui la definiva luce, cenere soffiata dalle stelle. Ma non solo. Un qualcosa di indomabile e selvaggio, una pazzia sedata. Mi guardava, mi scrutava, leggendomi dentro, attraversandomi, capendomi oltre. Mario Belardinelli, un maestro di tennis e di vita.
Mi indicava gli astri, il mio maestro. Mi insegnava a catturarne il riflesso. «Guarda gli astri Adriano,comprendili». Correva l’anno 1976. Imperatore sia a Roma che a Parigi, questo sono stato, tanto ho potuto. A dicembre a Santiago del Cile, il cielo è quasi privo di stelle. «Guarda in campo Adriano, ci sei tu, tu sei la stella».
Adriano, l’ultimo Imperatore azzurro a Roma. Il quinto in ordine di tempo. Prima di me Emanuele Sertorio. Era il 1933. L’anno dopo Giovanni Palmieri. Ancora si giocava nella nebbiosa Milano. Passarono ventuno anni e la corona fu di Fausto Gardini. Il mio capitano, Nicola Pietrangeli, zittì tutti due volte: era il 1957, era il 1961. Ero l’ottavo al mondo nel 1976, ma terza testa di serie a Roma. Prima di me Guillermo Vilas e il messicano Raul Ramirez, campione uscente, giustiziere l’anno prima di Orantes.
Il primo turno. Kim Warwick in vantaggio 6-3 2-6 5-2 40-15. Chiedo aiuto al coraggio, al braccio, alle stelle. Sul primo match point chiudo una volée, nel secondo costringo l’australiano all’errore. Io, Adriano, l’Astro del Foro Italico, più luminoso delle stelle che spiccano sulla bandiera del mio avversario, allontano altri tre incubi e risalgo 4-5. Non basta, il mio rivale si scuote e vola 40-0; o meglio plana perché io lo assillo, gli fiato sul collo, urlo, la folla si esalta, respingo la fine in un tuffo.
Conduco 6-5 e mi adagio, sciupo. «Adriano, credi negli astri è il tuo anno». Il tie-break è la casa degli audaci. «Fidati degli astri Adriano, fidati in te». Undici tormenti, undici volte la fine contrasto. E vinco. Il turno dopo ammansisco Tonino Zugarelli, al terzo giro calpesto Zeljko Franulovic. Nei quarti Harold Solomon si sgretola. È il set decisivo e lui è in vantaggio 5-4. Ma sente avverso il pubblico, l’arbitro, le stelle. Se ne va, lascia il campo, e in sacrificio mi offre John Newcombe. All’ultimo atto non mi resta che Vilas. E lo anniento.
Il mio avo, Mario Belardinelli, credeva negli astri, ma in primo luogo credeva in me, guardava lassù e vedeva me. Adriano Panatta.
Di Samantha Casella