Finalmente è arrivato il giorno della prima vittoria da professionista in un torneo di Adelchi Virgili. Nel trofeo “Mario Capponi” celebrato nella cornice del TC “Città dei Mille” di Bergamo Adelchi ha fatto funzionare tutte le corde del suo tennis. Ha stretto i denti, ha sofferto e vinto. Insomma, ha passato l’esame che tutti noi, che da anni lo seguiamo, pensavamo avesse già “preparato” grazie al suo talento cristallino. “Dai tempi di Panatta non vedo uno così”, parole non del vostro scrivano, ma di un coach di nome Fanucci.
La vittoria di ieri nell’ITF F14 Italy (10000 $, terra) è poca cosa se considerata in sè, ma grande se inquadrata nel più ampio contesto della carriera di Virgili. Martoriato dagli infortuni, dagli errori, dalle innumerevoli difficoltà di programmazione, segnato anche da un destino da predestinato, simboleggiato da quella foto in rete che lo ritraeva di spalle in cabina di commento con Rino Tommasi e Gianni Clerici. Una foto introvabile, che ricordo a memoria, postata in un Forum, forse 10 anni fa, che ritraeva proprio Adelchi all’età di 12\13 anni, quando già si parlava di lui come del “messia del tennis italiano”.
Il messia non sappiamo se sia lui, ma di sicuro sappiamo che è fatto per giocare a tennis, e il risultato di ieri lo conferma, proprio in virtù della storia faticosa che lo contraddistingue. Si aprono nuovi scenari, e se la fortuna si deciderà a baciarlo, speriamo di poter già chiudere il 2016 avvicinando quel best ranking (374 atp) raccolto tre anni fa, prima che la schiena tornasse a creare problemi al tennista toscano. Per ora i complimenti sono doverosi, sentiti e meritati.
Ma questa settimana ci restituisce alle cronache tennistiche, dal campo cioé, anche Gianluigi Quinzi. Le vittorie in Ungheria e Bosnia conquistate nelle scorse settimane trovano conferma nei quarti di finale raggiunti a Caltanissetta. Punti molto pesanti che riportano il talento marchigiano dalle parti del suo best ranking (301 atp), raggiunto forse troppo presto per essere gestito correttamente, nel mare magnum di allenatori presi, provati e rimandati al mittente. Del tutto evidente che la scelta di Ronnie Leitgeb stia portanto frutti immediati e di sostanza. Del resto il nome in ballo è garanzia di serietà e risulati (citofonare Thomas Muster e Andrea Guadenzi, per dirne due). Ci vorrà pazienza, ancora, e i gli score di Gianluigi ci mostrano come per vincere debba lottare, duramente talvolta. Dalla parte del dritto c’è lavoro da fare mentre il servizio comincia a regalare qualche punto “facile”. Work in progress, si direbbe, ma decisamente in progress.
Matteo Donati, infine, oggi gioca una finale fondamentale. Intanto perché c’è un cagnaccio di fronte a lui, un senese che devi battere a questo livello. Un signore che potrebbe essere suo zio e che impartisce lezioni di tennis da tempo ormai, permettendosi il lusso a 35 anni di andare a ritoccare, in caso di vittoria, il suo best ranking. Ma questa finale per Donats, come lo chiamano i suoi tifosi in rete, oggi rientra nella top200 dopo essere stato rispedito indietro, fisiologicamente, dopo il primo assalto del 2015. Questo significa essere giocatore. Avvicinarsi alla vetta, vederla a portata di mano e subirne il respingimento, come per ogni professionista che si rispetti: ma essere poi in grado di ritornare da quelle parti, a dimostrazione di non essere una meteora. Stesso discorso per
Alessandro Giannessi, uno che a tennis ha dimostrato di saperci giocare e pure molto bene. La strada per ritornare verso la top100 (126 atp) toccata 4 anni or sono è spianata. La semifinale raggiunta con un tennis brillante a Caltanissetta è l’ennesima dimostrazione che il lavoro paga. Per tutti, variato quel che va variato, in special modo per Paolino Lorenzi che il suo l’ha già fatto, l’invito è quello di non mollare la strada ripresa, percorrendola con coraggio, fuori dall’Italia, in cerca di conferme e di nuovi esami da superare. Restare in questo orticello e facendo qualche puntata in giro per occasionali Slam, non li consegnerà alla storia.