2050 giorni fa, si lasciò cadere al suolo, che, di verde, gli macchiò la polo candida.
2050 giorni fa, dopo un attacco di dritto non troppo convinto, un errore di Murray gli consegnò la gloria.
Fu Wimbledon, per la settima volta, e numero 1.
Trascorrono i mesi, gli succedono prima Djokovic e poi Nadal, durante quell’anno, il 2013, nel quale lo svizzero sembra indirizzato all’oblio senza alcuna via di fuga. Il dominio serbo dura altre due stagioni, nelle quali la sua superiorità è talmente soffocante da mettere in secondo piano le eclettiche prodezze di Federer.
Chi lo considera più? Nessuno.
Roger è storia, aurea e cristallina, ma passata.
È il turno di Murray, che dopo tante rincorse sconfigge Djokovic in finale alle ATP Finals dando inizio al proprio regno. Quando, nel Luglio 2016, i media vengono invasi dall’iconica immagine dello svizzero a terra, mentre, con il viso nascosto tra le braccia, metabolizza la caduta appena avvenuta nella semifinale contro Raonic, è chiaro a tutti sia nuovamente finito.
Annuncia sei mesi di stop, troppi per un uomo di trentacinque anni ormai da troppo tempo lontano dal vertice.
Siamo in Australia, quando, opposto a Berdych, sfodera una sfida preparata al dettaglio, di caratura superba che abbaglia la platea rimasta così a lungo in attesa. I quarti di finale con Zverev sono quelli che gli consentiranno il recupero fisico, dopo cinque set con Nishikori durante i quali, il rischio di sconfitta, è altissimo.
Prima Wawrinka, poi Nadal, dieci set in totale. Quando Federer solleva il diciottesimo Slam, a molti non sembra vero.
La prova di essere il sostanziale numero uno la offre nel quarto turno di Indian Wells, giocando la miglior partita in carriera e lasciando una manciata di quindici all’impotente spagnolo.
La terra non s’ha da fare, ci si ritrova tutti a Wimbledon, dopo una sconfitta con Tommy Haas che inutilmente alimenta i dubbi su un periodo di inattività deliberatamente preso che sembra avergli fatto perdere il ritmo.
Nulla di più falso. Ottavo Wimbledon, senza cedere un set.
Poche soddisfazioni arrivano in America, e solo Shanghai saprà riportarlo al successo.
Le ATP Finals giocate da assoluto favorito sono un boccone amaro, subito rimpiazzato dalla difesa del titolo in Australia, che lo proietta a 20.
Roger sente il sapore del trono, del posto per il quale pare essere nato, con quella sprezzatura che così insistentemente lo caratterizza.
Riceve una wildcard per Rotterdam, dove è tutto troppo facile.
Con Haase il primo set è impregnato di tensione, l’olandese lo vince, ma è chiaro a tutti come, il preambolo perdente, non serva che come incipit nella magistrale trama teatrale della quale lo svizzero è assoluto protagonista.
Demiurgo intoccabile, lascia due game nei successivi due parziali.
Quando è “game, set and match”, tutto torna a 2050 giorni fa.
Roger Federer è di nuovo numero uno del mondo, un riconoscimento che serve solo ad ufficializzare ciò che, da un anno, già tutti sapevano.
2050, intensi ed oscillanti.
Ma infine il cerchio torna a chiudersi, gli astri si allineano, la storia scrive una nuova pagina.
E quella stessa storia, della quale si parlava solo al passato, ora è presente.
Il Re è tornato.