A Dubai assistiamo al completamento di quel cerchio che, gli affezionati, speravano potesse chiudersi lo scorso anno a Wimbledon, con un titolo numero 100 conquistato sui sacri manti dell’All England Club che sarebbe parso, per assoluta perfezione, il simbolo di una carriera irripetibile. Purtroppo, però, sui prati prediletti di Halle, l’imprevedibile sconfitta con Coric impedì al Vate la conquista di un simile obiettivo, rimandando l’appuntamento con la storia, nuovo capitolo di un libro al confronto del quale “Guerra e Pace” rappresenta poco più di una favoletta per infanti, a data da destinarsi. Finalmente, in terra araba, è luce. Nell’ultimo tessera del composito mosaico, c’è Tsitsipas da affrontare. Roger ricorda bene, così come i suoi tifosi, la partita persa agli Australian Open contro il giovane greco, che sfruttò una giornata disastrosa dello svizzero, incapace di colpire un vincente con il dritto, per rivelarsi al grande pubblico in tutta la sua folgorante freschezza. Lo splendido blu di un completo monocolore coordinato alle tinte del campo, però, avvolge questa volta un corpo pervaso da linfa vitale. Nel secondo game l’elvetico, già avanti di un break, è sotto 0-15 al servizio. Una prima centrale, nel secondo punto, è seguita da una smorzata di dritto sul quale il greco non arriva. Nuovamente prima e Roger si avvicina celermente alla risposta, impatta un dritto lungolinea seguito da rapidi passi a rete. Il gioco di volo è parte integrante di uno schema d’attacco che l’ha reso mediaticamente immortale, vede prima un passante non ancora concepito. Si sposta così verso il centro del campo, ben conscio della direzione che il colpo dell’ellenico, arrivato con ottima spinta a colpire la palla, prenderà entro pochi istanti. Il rovescio di Tsitsipas taglia il campo fendendo l’aria, è uno splendido vincente monomane che fa alzare in piedi l’intera platea. Invece no, così non accade. Roger si allunga dando le spalle alla rete, intercetta il colpo poco prima che la palla tocchi il suolo. Lo addomestica, con un polso d’acciaio che per ossimoro è così delicato. La volee, lusingata, muore subito oltre il nastro. È plastico spettacolo di bellezza applicata al tennis. In quel momento mi rendo conto che a poco altro ci sia da assistere. Si seguono i turni di servizio, con un altro break che, un dritto sbagliato del greco a fine secondo set, decreta la fine delle danze. Il primo titolo vinto dallo svizzero fu a Milano, in un lontano 2001 del quale in pochi hanno memoria. Da quell’anno ad oggi, novantanove allori, a caccia di un record detenuto da Connors (109) con il quale, per valore di tornei, è inutile tentare paragoni che sarebbero inesatti. È solo un 500, sì, con lo stesso valore di quello vinto da Kyrgios poche ore dopo in una Acapulco che, anzi, ha avuto un tabellone decisamente più ricco di talento. Non è però il peso specifico al quale oggi, io e altri giornalisti ben più illustri e competenti, facciamo riferimento. Si tratta di numeri, immagini e simboli. Quegli stessi simboli che, concretamente, significano ben poco, ma che nel ricordo di un’umanità dominata dall’irrazionalità, fungono da portanti tasselli della storia. È un 100 che stupisce e lascia con il fiato sospeso. L’ennesima icona di un uomo che è parte integrante dello sport e, a suo modo, ne è pure fondamento. Le più sentite congratulazioni al Vate celestiale.
Altri 100 di questi giorni.