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Diario del Roland Garros: giorno 15

-Sarei sostanzialmente falso se iniziassi il racconto dell’odierna finale prodigandomi in racconti malinconici, frasi strappalacrime e ricercate figure retoriche che di retorico hanno soltanto il suono. Già ne ho lette, parecchie, di storie costruite su una partita che non ha avuto nulla da dire. Se è infatti scorretto costruire ricami forzati su un incontro scialbo, noioso e perfino scontato, è al contrario necessario partire da un dettaglio per parlare di un giocatore che oggi, libero sfogo alle banalità, ha scritto nuovamente la storia. Nel corso della premiazione pare, ad un certo punto, che si sia smarrita, nell’emotività dello spagnolo, anche la capacità di godersi un successo di tale importanza. Riceve il trofeo, osserva con plastico sorriso chiunque gli rivolga parola, pronuncia a memoria le solite parole di rito. “Dominic sei un grande giocatore, ottimo team, ti auguro il meglio per il futuro”. Mi domando se sia possibile l’assuefazione da vittorie, ricordo un Djokovic incontrastabile venuto meno, si dice, per mancanza di stimoli. Ho paura che Nadal, giocatore al quale ho sempre rivolto il mio tifo e la mia passione, stia per cadere nell’oblio dell’abitudinarietà, perdendo l’enfasi che così all’improvviso, di lui, mi ha fatto divenire adepto. Accade tutto secondo un copione meccanico, parole prestampate scorrono sotto la gelida allegria di un campo centrale adibito a festa. 

Non può essere che accada. 

Mentre la trama volge al termine, conclusasi ormai sotto il velo aberrante della monotonia, accade un fatto inaspettato. Dagli occhi di Nadal, inizialmente tirati con forza, sgorga una lacrima. Si squarcia il plumbeo panorama, non riesce a trattenersi. La platea, fino ad allora fedele ad applausi ritmati assoggettati ad un metronomo inesistente, si scioglie. Ad ogni singhiozzo del campione al centro del campo corrisponde un sussulto del pubblico finalmente rianimato. Fuoriescono i colori, liberati dalla maglia grigia della compostezza. Si scagliano, contrapponendosi alla tinta bigia del cielo colmo di nubi, il rosso della terra e l’azzurro di Nadal, che ora rilassa i muscoli di un viso divenuto sincero. Si ascoltano le grida, chi ride non prova pietà per i commossi. Aumenta in sottofondo il rombo del più grande record che mai sia stato scritto in terra parigina. Passano davanti agli occhi di tutti i dritti arrotati di uno spagnolo che tredici anni fa, con pinocchietti e canottiera spavalda, lasciò che la schiena gli si sporcasse di rosso. Scorrono le immagini che vedono soltanto successi. È chiara a tutti, adesso, l’evoluzione del giocatore che si trovano davanti. Se prima, ammirando un rovescio incrociato dalla tecnica perfetta, si battevano soltanto le mani, magari guardando negli occhi con espressione di assenso l’uomo o la donna seduti accanto, ora invece si comprende la grandiosa entità di tale gesto. I movimenti che adesso consentono a Nadal di sfogare la sua innata rabbia su un rovescio che fende l’aria lasciando immobile Thiem, sono frutto di un lavoro estenuante durato più di un decennio. Corre, scalpita, urla, arrota e disegna geometrie perfette, angoli mai visti su un campo da tennis, incarnando un stile che gli è proprio e che, per quanto bistrattato, non ha metri di paragone all’interno del circuito e della storia. Undici vittorie in uno stesso torneo del Grande Slam, diciassette totali. Rafa si emoziona come fosse il suo primo titolo. 

Complimenti, Re della Terra. Mai nessuno sarà più come te. 

Nicola Corradi

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