Il tennis, un po’ come ogni altro aspetto della nostra vita, sa essere davvero crudele. Un giorno assapori la gloria, ti ritrovi in cima al mondo , vedi davanti a te ogni orizzonte possibile immaginabile e dietro, a grande distanza, tutti gli avversari, che con tanta fatica hai superato per poi mettere una distanza praticamente irrecuperabile. Il giorno dopo rischi che un ragazzo scozzese, tuo coetaneo e molto simile a te sotto tutti i punti di vista, ma sempre considerato inferiore, ti strappi il primato nel ranking. Mai una situazione fu più esemplare del detto “dalle stelle alle stalle”. E’ questo ciò che è successo a Novak Djokovic, ormai prossimo al Grande Slam fino a tre mesi fa, e ora ad un passo dal “baratro”, con le dovute proporzioni.
La parabola discendente intrapresa negli ultimi mesi dal serbo, dominatore incontrastato della scorsa stagione e della prima parte di 2016, sembra non avere fine. Tutto è cominciato a Wimbledon, con il fragoroso tonfo sull’erba di Church Road, che ha scosso tutto il mondo del tennis: vi erano ufficialmente le prime avvisaglie di un calo. In qualche modo, quella sconfitta contro Sam Querrey, tennista sempre sconfitto precedentemente, ha intaccato in qualche modo quell’ingranaggio perfetto che ha permesso a Nole di conquistare, a partire dagli ultimi mesi del 2014, praticamente ogni torneo importante. Dopo lo storico successo al Roland Garros, che lo aveva lanciato meritatamente nell’Olimpo dei più grandi campioni del nostro sport, le prospettive per il numero 1 erano decisamente ottimistiche, come logico. E, intendiamoci, le cose stanno ancora così: con il trionfo sulla terra parigina, che tanto desiderava, Novak si è guadagnato un posto accanto ai migliori, e questo nessuno potrà mai toglierglielo; e non si può dire, nonostante tutto, che non possa più ottenere grandi risultati, essendo ancora relativamente giovane. La sensazione, però, è che qualcosa sia successo: quella sera di Luglio, sul campo 1 dei Championships, Djokovic non era lo stesso. Nello stesso contesto dove, trecentosessantacinque giorni prima, aveva sconfitta dopo un’interminabile lotta Kevin Anderson, il serbo stava cadendo sotto i colpi di Querrey, ma, a differenza della sfida contro il sudafricano, quel giorno non appariva sul suo volto nessun accenno di reazione. Qualche sporadico gesto di esultanza, ma nulla più. L’espressione era sempre la stessa, spenta, quasi apatica, di un tennista distratto e con la testa da un’altra parte, senza il solito mordente.
La sensazione è sempre quella di un qualcosa che manchi, di un tassello necessario per completare il puzzle. Nonostante la parziale ripresa a Toronto, dove si è imposto a fatica in un tabellone zoppo e privo dei principali rivali, e la finale raggiunta a New York, ancora con l’aiuto di un main draw più semplice del solito, è ormai da mesi che non si vede in campo non la migliore versione di Nole, ma neanche un lontano parente. Dopo Wimbledon, si sono susseguite altre sconfitte inaspettate. Prima quella contro Juan Martin Del Potro, piovuta come un fulmine a ciel sereno, poi ancora quella contro Wawrinka e infine, come noto, quella contro Roberto Bautista Agut. Se le prime due erano state “imputate” al merito dei suoi rivali, sicuramente non da sottovalutare e da encomiare, risulta invece davvero difficile, nonostante la stima per un professionista come Agut, chiudere gli occhi e voltarsi di fronte all’orrenda prestazione di Nole a Shangai. Cosa che, invece, sembra si voglia continuare a fare. La concentrazione sul suo volto, l’animalesco desiderio di lottare, di vincere, sono svaniti. Ha preso prepotentemente la scena, invece, una versione di Djokovic nervosa, insofferente, fallosa e, forse, quasi svogliata; un Djokovic che da sempre la sensazione di essere alla ricerca di quel quid perso, che prima gli permetteva di prevalere praticamente su chiunque.
Quali sono le vere motivazioni di tutto ciò? Probabilmente non lo sapremo mai veramente, ma noi vogliamo provare a fare qualche supposizione. Innanzitutto, vi è lo spettro costante di un problema fisico, che, un po’ come tutto il resto, è circondato da un alone di mistero. Novak annunciò non appena arrivato a Toronto, nell’ormai lontano mese di Luglio, che un infortunio al polso lo aveva colpito. Questo malanno era improvvisamente scomparso dopo la vittoria in Canada, per poi ricomparire a Rio de Janeiro e dopo gli US Open, tanto forte da costringerlo a saltare Pechino. Forse, e dico forse, Nole farebbe bene a dire veramente quali siano le sue condizioni, sotto questo punto di vista.
Ma quello che davvero preoccupa sono le evidenti difficoltà a livello mentale, che lo stanno martoriando da ormai troppo tempo. Dopo la vittoria al Roland Garros, come ampiamente comprensibile, le motivazioni sono calate a picco. Il raggiungimento del traguardo più ambito, l’aver cancellato l’incubo che lo tormentava da anni, e l’aver sfatato il tabù dell’ultimo Slam mancante, hanno probabilmente portato il numero 1 a rilassarsi e ad allentare la presa. Niente di più naturale: in fondo, anche se spesso ce ne dimentichiamo, i tennisti non sono macchine, ma persone. Ciò che è emerso dalla sconfitta di Sabato scorso, però, non è solo una mancanza di motivazioni, ma piuttosto una totale mancanza di feeling sul campo, quasi come se non fosse a proprio agio, in difficoltà nei momenti chiave e non in grado di alzare il livello quando davvero contava; caratteristica che, invece, lo ha sempre contraddistinto. Saranno i problemi personali, anche se preferisco non credere a illazioni e non mi interesso di gossip; saranno lo motivazioni, o qualsiasi altra cosa, ma è innegabile che c’è qualcosa che non torna.
Probabilmente, i risultati hanno oscurato a lungo questo problema. E’ dall’inizio di questa stagione, infatti, che solo a sprazzi Novak riesce ad esprimere il suo miglior tennis. Ad alcuni match eccezionali, infatti, come la finale di Doha contro Nadal o le finali degli Australian Open e di Parigi contro Murray, Djoker ha alternato prestazioni pessime, dagli ottavi contro Simon in Australia alla sconfitta contro Vesely a Monte Carlo. Fino a Giugno, tuttavia, la sensazione era sempre quella di un Djokovic in grado di estrarre dal cilindro i suoi colpi migliori quando ne aveva bisogno. Il filotto degli ultimi tre incontri nel primo Slam stagionale, dove ha messo in fila Nishikori, Federer e Murray, alla grande determinazione con cui ha sbancato la terra parigina, ne sono un chiaro esempio. Quell’incantesimo è svanito all’improvviso.
Tutto ciò ha avuto inevitabilmente ripercussioni sul suo gioco. La pressione asfissiante, la brillantezza, gli angoli imprendibili e la solidità incredibile dei colpi da fondo campo sono scomparsi; il servizio, nettamente migliorato con Boris Becker, si è involuto in maniera quasi impressionante, ed è forse qui dove emergono maggiormente i problemi fisici di Djokovic. Il risultato è un giocatore privo delle proprie armi, e in balia dell’avversario. Il tennis del numero 1 del mondo è sempre stato basato sulla bassa quantità di errori, sulla spinta da fondo e sulla capacità di controattaccare, di trasformare la difesa in attacco; e, ovviamente, su una copertura del campo inumana, con spaccate e recuperi lontane dalla normalità. Ora, invece, il serbo sembra non spinge, non verticalizza e non si difende; insomma, può perdere da molti avversari.
E’ arrivato il momento, per Nole, di affrontare una volta per tutte il problema. Cos’è che vuole davvero? La dichiarazione di poco tempo fa, con cui ha apertamente dichiarato che la priorità non siano più i titoli ma la famiglia, non sembra incoraggiante. Intanto, però, gli altri non stanno ad aspettare, e Murray è ormai prossimo al sorpasso, davvero probabile. Probabilmente i principali traguardi sono ormai stati raggiunti, ma le sfide non mancano certamente. Sono tanti i record che Novak può ancora battere. Ma quello che serve è ritrovare la voglia, la passione, la dedizione, la capacità di dare tutto sul campo. Nessuno sa se ci riuscirà, ma sappiamo che se c’è uno che può farcela, quello è lui. Ora sta a lui riscoprire la fiamma che lo ha alimentato finora, e lo ha spinto a farsi strada nel circuito sconfiggendo ogni rivale.