Epitaffio speranzoso di Stan Wawrinka

Le scarpe, sulle quali sono impressi i simboli dei tre Major che con superbo strapotere fu in grado di vincere, sono l’unico particolare capace di farmi tornare per un attimo al passato.

Scrivo queste righe con un’unica speranza: essere al più presto e clamorosamente smentito. Ieri pomeriggio, sui prati finemente lavorati di Eastburne (attualmente i migliori come colpo d’occhio), si sfidavano in un primo turno di assoluta rarità Andy Murray e Stan Wawrinka. Sei Slam in due ed attualmente alle posizioni 156 e 225 del ranking. Da non credere. I due, reduci da un lungo calvario fisico che li ha tenuti fuori dalle competizioni per lungo tempo, scendono in campo seguiti da migliaia di occhi curiosi e desiderosi di assistere dal vivo alla rinascita degli unici capaci di insidiare, seppur in modesta misura, l’egemonia totalitaria del trittico intoccabile. Se per Murray, di ritorno dopo un anno dall’annuncio dello stop, sensazioni positive erano già sorte dopo il primo turno giocato e perso con Kyrgios al Queen’s, dove solo il valore eccelso dell’avversario lo fece uscire sconfitto, ciò non può dirsi per Stan Wawrinka. Lo svizzero ha ripreso a giocare dall’inizio dell’anno ed il saldo complessivo del 2018 è di cinque vittorie a fronte di otto sconfitte. Sconfitte maturate, tra l’altro, con avversari insospettabili (Ivaška, Griekspoor, Bašić), frutto di un tennis insufficiente ed un atteggiamento sfiduciato. Confidavo nella naturale predisposizione dell’elvetico all’esaltazione scaturita nel corso di partite che meritino di essere giocate. Lo ricordavo ancora, con occhi estasiati, imporsi sul circuito grazie a fondamentali dalla potenza incontrastabile, scagliati con continuità tre, quattro, cinque volte di fila. Così, con questa innata dote, superò due volte, in altrettante finali Slam, il Novak Djokovic imbattibile del biennio 2015-2016. Così si impose anche su Nadal in Australia e nuovamente sul serbo ai quarti di finale dello stesso torneo, 9-7 al quinto in un incontro che rimarrà eterno. Lo osservo quindi pieno di speranza, mentre, durante il secondo game, impatta un dritto inside out colpendo la palla al centro del piatto corde, producendo quel suono che solo una simile potenza può generare nel sacro silenzio del convento inglese. “Forse ci siamo”, mi dico, cadendo ingenuamente in errore. Stan si muove lento, prepara i colpi con ritardo in quella superficie che mai, in carriera, gli ha donato soddisfazioni. Come una catena di montaggio, ogni dettaglio ha effetti sul resto del gioco ed i potenti fondamentali si riducono spesso a rimesse in gioco prive di peso. Il rovescio che prima, fendendo l’aria, lasciava fermo il giocatore a lui opposto, ora boccheggia fiacco cadendo a metà campo, lasciando a Murray, rinvigorito dal punteggio, la possibilità di spingere e prendere il punto a rete. Assisto spaesato, Stan non accenna alcun segno di reazione. Il primo set termina 6-1 dopo un dominio assoluto dello scozzese, che fa suoi tutti gli scambi lunghi ed attacca con mestiere in risposta, sfruttando l’anticipo di palla che il rovescio bimane lungolinea ed il dritto incrociato stretto gli permettono di ottenere. Il servizio di Wawrinka perde progressivamente precisione e velocità, ogni palla diventa sempre più smorta. La partita finisce 6-1 6-3, parziali che perfettamente raccontano la differenza di valori vista sul terreno di gioco. Dello svizzero che conoscevo sembra non essere rimasto nulla. Le scarpe, sulle quali sono impressi i simboli dei tre Major che con superbo strapotere fu in grado di vincere, sono l’unico particolare capace di farmi tornare per un attimo al passato. Ho amato Stan Wawrinka, l’ho adorato nei suoi momenti di massimo splendore e l’ho compreso nei mesi di buio passati in villeggiatura tra un torneo e l’altro. Lo osservo oggi, a quasi sette mesi dal ritorno e non riesco più a vedere, negli occhi, il giocatore che con tale brutale prorompenza mi abbagliò un giorno. Il pubblico impaziente pronuncia con insistenza la parola “ritiro”. La sento e inorridisco, pensando a quanto questo giocatore possa offrire. 

Se questa sia la fine non mi è dato saperlo. La storia mi ha insegnato, con i suoi grandi, numerosi ritorni, quanto l’estremo saluto anticipato sia il più grande degli errori.  

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