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Gasquet e Santoro, l’apoteosi del bello fine a se stesso

Al mondo esistono cose brutte.
La guerra, la carestia, la schiavitù ed il mese di Settembre all’interno di un circuito tennistico datosi sommessamente al riposo autunnale in vista dell’ultima parte di stagione.
Dovete scusarmi, dunque, se in questi giorni, da parte mia, non avete avuto notizie, ma mi trovavo impegnato nel contemplare l’infinito sognando una Laver Cup pompata ad arte da esperti social media manager, così navigati nel loro mestieri da farmi attendere, come anacoreta, l’apollineo doppio Federer-Nadal a cui tutti immaginano di poter assistere.
In questa fase poco concreta della mia esistenza, una notizia fa breccia tra le nuvole.
Fabrice Santoro è diventato il nuovo coach di Richard Gasquet.
Cosa? Non posso credere che l’articolo corrisponda al vero. Penso al simpatico scherzo di qualche giornalista burlone e fantasioso, divertitosi a creare l’illusione di una coppia che sarebbe apoteosi del sovrannaturale. Controllo meglio, cerco la nuova in altri spazi.
Trovo la conferma e sorrido.
Per chi non lo sapesse, Santoro è un ex tennista nato a Tahiti, un’isola al completo centro dell’oceano Pacifico appartenente alla Francia dal 1880, anno in cui il re Pomare V, dopo anni di lotta, fu costretto a cedere la sovranità del proprio territorio ai transalpini. Concetti storici a parte, Santoro è stato uno dei giocatori più iconici che la storia del tennis abbia mai avuto in dote.
Sei titoli vinti in carriera, diciassettesima posizione nel ranking come miglior piazzamento e mai oltre i quarti di finale in uno Slam, raggiunti una sola volta agli Australian Open.
Aveva un soprannome, però, ed era “Il mago”. Antenato diretto di Agnieszka Radwanska, la sua reincarnazione in gonnella, Fabrice è stato, in vent’anni di attività, un tennista irreplicabile.
Guy Forget dirà: «Il suo gioco è paragonabile ad un virus che infetta un computer: a poco a poco distrugge tutto quanto gli stia intorno».
Tagli, taglietti subdoli ed insidiosi. Dritto e rovescio a due mani dediti al supporto di un fisico troppo carente per un tennis, negli anni ’90 e ’00, già indirizzato verso il progressivo aumento della muscolarità collettiva che oggi trova il suo apice, soprattutto tra gli uomini.
Non c’era razionalità, all’interno del suo gioco. Un sommarsi di istintivi colpi di genio volti al fine di irretire gli impotenti avversari. Come da tradizione, per ogni francese che si rispetti, anche Santoro fu dotato di troppo talento per poter costruire una carriera ricca di successi.
Come lui, infatti, tanti, prima e dopo. Una catena di cristallinee doti che trovano la loro massima espressione in Richard Gasquest, cigno bianco capostipite di una dinastia tanto candida quanto perdente.
Nel 2003 Richard, allora diciassettenne, monopolizzava le riviste specialistiche che lo davano, senza possibilità di replica, come futuro numero uno e campione Slam, infinitamente superiore ad un ragazzo suo coetaneo mostratosi al grande pubblico come classico palleggiatore di rimessa, Rafa Nadal.
Che rovescio, uno schiocco mai sentito prima e capace, ogni volta, di generare stupore.
Un braccio totale, definizione che concedo ad un arto in grado, a suo piacimento, di plasmare divine creazioni.
La mente vaga alla ricerca di impossibili combinazioni, immagini che vedono Richard sollevare il trofeo del Roland Garros dedicandolo al coach Santoro.
Penso gaudente ad una tale ipotesi, per poi rendermi conto di quanto, seppur bellissimi, questi interpreti superbi siano destinati ad una vita di vacui successi.
Semidei costretti da un destino beffardo al fardello di illudere i mortali fingendosi perfetti.
Scado in ragionamenti sconclusionati, mentre la voce narrante di Eurosport annuncia l’ingresso in campo di Lucas Pouille a San Pietroburgo.
La notizia del giorno è raggiante.
Una splendida notizia gloriosa e apotropaica.

Nicola Corradi

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Nicola Corradi

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