Seconda settimana delle tre in preparazione al sacro Slam, prati ancora intatti e regime di competizione stile 14-18 tra Germania ed Inghilterra.
Si disputano infatti a Londra e ad Halle i due ATP 500 che riempiono di buon tennis gli occhi degli appassionati, accorsi freneticamente ad ammirare le beltà del verde. Intrinseco di storia, il Queen’s club prende il proprio nome dalla regina Vittoria, ancora regnante nell’ultimo decennio dell’Ottocento e, dal 1890 ad oggi, presenta un albo d’oro ricco di leggende sportive.
L’attenzione, però, a discapito del britannico appuntamento un po’ snob che tanto piace agli alti nomi del circuito, è catalizzata in toto dal Gerry Weber Open, torneo tedesco che, da più vent’anni, è dispensa di tennis anacronistico.
Ancora fresca nei ricordi è l’impresa, datata 2011, di P. Petzschner, che si ritirò in finale (per coerenza allergico ad ogni tipo di successo) dopo aver estromesso, ai quarti ed in semifinale, Raonic e Berdych, sciorinando un tennis straripante ed apollineo.
L’appuntamento teutonico è però storicamente preda di Roger Federer, che per otto volte si è aggiudicato il trofeo ed oggi, dopo la declamata debacle patita a Stoccarda, ha sapientemente sbriciolato le inesistenti resistenze di Sugita, che gli ha strappato, con fatica immane, la miseria di quattro game.
Il Vate, tornato a danzare sul terreno preferito, affronterà ora in un remake della sfida australiana, Misha, più stagionato e talentuoso fratello dei fratelli Zverev, che allora venne algidamente schiacciato dallo strapotere svizzero dopo essersi erto a salvatore del bel giuoco eliminando la scialba controfigura di Andy Murray. Esordisce anche Pouille, che, opposto a Struff, cede inizialmente con misericordia rara il primo set per 6-1, recuperando poi la (poca) ragione per imporsi 6-3 6-4. È gioia turbolenta ma grandiosa, condita dalla splendida sconfitta del baronetto Andy che si dice pronto per Wimbledon e, per dimostrarlo, perde da Thompson al primo turno del Queen’s. Superbo numero 1, ancora per poco.
Menzione d’onore la merita anche Brown, che plasma una folle sfida con Pospisil (stranamente eclettico e ringalluzzito dal contatto con i manti) vinta infine tra saltelli e volèe in tuffo.
Su un campo secondario, per lo più riempito da parenti e amici dotati di cuore gentile, scende in campo, nel torneo di doppio, lo stesso Petzschner che sei anni fa raggiunse la finale. Bastano cinquanta minuti di imbarazzante sconfitta per dimostrare quanto, anche solo un punto dell’artista tedesco, valga più di tutti i titoli vinti da Raonic, che sono pochi ma comunque troppi.