Ti dicono di vivere il presente e tu guardi la finestra che incornicia una cascata di fiocchi sui tetti della città. Il clima cospira con le luminarie per richiamarti in un mondo fatato infantile, mentre il presente – più pragmatico – ti ricorda che la neve, oltre a trasformarsi presto in una poltiglia nerastra, sarà una catastrofe geopolitica per il traffico urbano e non solo.
Ma sta finendo il decennio e il presente è più che mai un guardarsi avanti e indietro di bilanci e di previsioni, insomma una contraddizione unica… D’altra parte il presente è uno strano compagno, contemporaneamente assiduo e sfuggente.
Ecco inquadrato il contesto di ragionamenti ampi e sconfinati in cui apprendo che Novak Djokovic è stato nominato da tennis channel il miglior tennista del decennio. I suoi numeri fanno spavento, così come ha fatto paura il suo strapotere in alcune annate (specialmente 2011 e 2015, in cui ha vinto tre Slam su quattro e rispettivamente 10 e 11 tornei stagionali): 15 Slam e 61 tornei contro i 13 e 48 di Nadal, i 5 e 42 di Federer e i 3 e 32 di Murray, il primo degli umani.
Ora, se il computo lascia poco spazio alle repliche, è piuttosto impressionante il paragone con il suo illustre predecessore, il tutt’ora aitante Roger Federer: nel primo decennio del secolo, infatti, lo svizzero ha vinto esattamente lo stesso numero di Slam e alzato lo stesso numero di trofei, con l’unica rilevante differenza nel conto dei Master 1000 – che però prima del 2007 si giocavano parzialmente al meglio dei 5 set e hanno subito alcuni cambiamenti, comunque li si voglia interpretare – a favore del serbo, l’unico della storia ad averli sollevati tutti in carriera (Career Golden Masters).
Bene, queste cifre tanto simili sembrano volere ironicamente avvicinare due personaggi tanto lontani da non rispondere nemmeno al classico adagio degli opposti che si attraggono e completano, ormai assodato nella rivalità tra Roger e Rafa, puntualmente intervallata da dichiarazioni d’amore. E allora proviamo ad andare più a fondo in questo paragone tra i dominatori della prima e della seconda decade.
Due epoche
Per capire basta dare un occhio al podio Atp del dicembre ‘99, che conta nell’ordine Agassi, Kafelnikov e Sampras, nomi ormai mitologici. È stato un decennio segnato da fasi diverse. Prima il crepuscolo degli antichi dei e l’ascesa di Federer, poi un suo dominio presto seguito dalla prepotente entrata in scena di Nadal, l’antieroe per eccellenza. Sul finire si comincia a intravedere la crescita di Nole e Murray, premonizione degli anni a venire.
Il decennio che si chiude ora è stato più uniforme, più duro, segnato dalla tirannia di Nole, Nadal e Roger, con i soli Murray – 3 slam e 41 settimane al numero uno Atp – e Wawrinka – 3 Slam – a fare da timide alternative, oltre all’exploit di Cilic agli Us Open 2014. La sensazione si conferma scorrendo le finali Slam, dove Roger ha affrontato avversari eterogenei, dai classici Andy Roddick, Andre Agassi e Lleyton Hewitt, ai meno quotati Philippoussis, Fernando Gonzalez, Baghdatis e Söderling, finendo ovviamente con i soliti tre tenori. Al contrario, Nole in questo decennio ha affrontato più o meno sempre gli stessi avversari, situazione che di certo lo ha messo a dura prova per quanto riguarda il valore assoluto delle forze in campo, ma che lui è riuscito a ribaltare a proprio favore sfruttando l’estrema regolarità del proprio tennis e del proprio approccio mentale privo di paure e di complessi. Tant’è vero che, passando alle finali perse, oltre alle tre contro l’inarrivabile Nadal parigino, spiccano le due contro l’atipico Wawrinka e le altre due contro Murray. Viceversa ha sempre battuto Nadal sulle altre superfici e Federer ovunque, rovesciando nel corso degli anni l’equilibrio degli head to head. A questa rassegna bisogna aggiungere le due finali recenti, vinte facilmente contro gli intrusi Anderson e Del Potro.
Due stili
Nole ha un gioco da fondo di costanza e sostanza, che fa della risposta il suo cardine principale. Non è un gioco prettamente difensivo, ma di certo nasce da una formidabile capacità difensiva. Per fargli punto non basta un vincente, ma ne servono almeno tre, con tutti i rischi conseguenti, inoltre lui non si limita a ributtarla di là, ma tende a rivoltarti contro la difficoltà che tu volevi proporgli: la profondità dei suoi colpi è impressionante, una ricerca voluta e continua delle righe di fondo. Spesso è stato paragonato a una macchina o un robot, il che può non piacere ma rende bene l’idea.
Il gioco di Roger, invece, è più difficile da inquadrare. È molto vario, sempre aggressivo e si è evoluto con l’andare degli anni con l’idea di abbreviare gli scambi senza che i rischi superassero l’efficacia. Gli anni con Edberg, sebbene poveri di risultati, hanno dato un impulso decisivo al gioco a rete, di cui si sono visti i frutti più avanti. Il rovescio in top spin è tornato a prevalere sul back in cui troppo spesso si rifugiava, e l’anticipo dei colpi si è fatto negli ultimi anni esasperato. Con il suo rovescio a una mano, il suo tocco e il suo timing nell’attacco, è senza dubbio un’icona di stile e rappresenta un tennis universale e sfaccettato, antico e moderno o meglio fuori dal tempo, ed è un prezioso testimone del fatto che si possa ancora vincere giocando così.
Due teste, due crisi
Nel tennis la testa è tutto, lo sanno anche i muri. E anche sotto questo aspetto abbiamo due personaggi diversi, dentro e fuori dal campo, per quanto si siano evoluti parecchio entrambi, moderando gli ardori giovanili e aumentando il controllo e l’accettazione di sé.
Roger è un giocatore emotivo, forte come un Dio ma soggetto a improvvisi momenti di fragilità, pagati con cadute fragorose e ferite profonde. A parte la difesa d’ufficio che sostiene che il tennis si giochi punto per punto, cancellando il passato – remoto e recente – e il futuro, l’impressione è che questi tonfi si siano spesso tramutati in spettri potenti e maligni capaci di saltare fuori nel momento meno opportuno a minare ogni sicurezza. Dietro il Federer vincente e vincitore, esiste un Federer delle occasioni perse, un fiero eroe sconfitto criticato da tanti per questa debolezza eppure affascinante anche proprio per questa misteriosa convivenza di opposti. Ovviamente nella sua carriera ha vinto anche battaglie epiche e serrate – su tutte la finale degli Australian Open 2017 – ma in generale ha dato il meglio quando è riuscito a dominare senza discussioni, perdendo viceversa un po’ troppe partite combattute.
Nole, dal canto suo, quando è giunto a maturazione ha sviluppato una sicurezza e una forza interiore che non lo abbandonano quasi mai. La resilienza è forse la sua dote migliore: sa aspettare la partita e sopravvivere ai momenti migliori dell’avversario, per poi salire di giri e avventarsi sulla preda. Anche nei momenti di nervosismo riesce a isolarsi e a convogliare ogni energia nella giusta direzione. D’altra parte questa sua freddezza quasi soprannaturale negli snodi cruciali, questa mentalità vincente quasi spietata ha anch’essa un rovescio della medaglia che sta trovando sempre più spazio nelle cronache e nelle interviste: Nole soffre all’idea di non essere amato dal pubblico come gli altri due. Quali che siano le ragioni – le ipotesi più varie: è il terzo vertice incomodo di un triangolo impossibile, è troppo personaggio e suona poco sincero, è stato arrogante in passato o, ancora, questa sua ricerca di affetto invoglia a respingerlo – lui trasforma da par suo questa sofferenza in ulteriore motivazione agonistica, ma quel nonsoché di irrisolto, quel granello di follia, piaccia o no, è tipico degli artisti, intesi come interpreti eccellenti della propria disciplina.
Per proseguire con il lato oscuro, non c’è grandezza senza crisi: Roger ne ha attraversate tante, sia nei confronti di certi avversari, sia in termini assoluti con se stesso – anche se qui sconfiniamo nel decennio di Nole – ma ne è uscito alla grande tornando a vincere slam imprevedibili; Djokovic dal canto suo ha vissuto un 2017 da incubo in cui pareva quasi inerme di fronte ai problemi fisici che gli hanno tolto sicurezza, poi quasi dal nulla ha vinto Wimbledon 2018 ed è tornato – non il dominatore totale e cruento di prima, ma ancora più scientifico nella ricerca del momento giusto – portando a casa 4 dei successivi 6 slam: non male per uno che era stato dato per morto.
Due finali
Per chiudere questo volo pindarico lungo vent’anni, citiamo le due ultime finali di Wimbledon delle rispettive decadi, entrambe epiche e infinite.
Nel 2009 Roger ha conquistato il suo sesto alloro, il più sofferto, in una partita epocale con Andy Roddick, chiusa 16-14 al quinto set, fondamentale per cancellare la bruciante sconfitta del 2008 con Nadal, seguita dall’altrettanto drammatica replica nella finale degli Australian Open del 2009 – by the way, in quell’anno Roger ha giocato tutte e quattro le finali slam, incluse in una striscia di sette consecutive, perdendo gli Us Open da Del Potro e vincendo l’unico Roland Garros della carriera, insomma un periodo impegnativo.
Anche nel 2019 l’uomo del decennio ha chiuso in bellezza con due slam e anche quest’anno la finale di Wimbledon è stata lunga e drammatica – forse la più drammatica, di sicuro la più lunga –, una delle più belle partite della storia combinando pathos, livello tecnico e posta in palio.
Lì si è consumato e riassunto tutto quanto ed è avvenuta la fusione dei due elementi. Roger, osannato dal pubblico planetario, ha condotto il match a modo suo. Nole, quasi schiacciato dal gioco, dal tifo e persino dal destino che lo voleva sconfitto, non si è arreso al fato. È riuscito a non perdere, ha resistito con le unghie fino a quando la partita non gli è rimasta fra le dita. Personalmente lo vivo ancora come un incubo a occhi aperti, ma non si può negare la meraviglia estetica di questa tragedia perfetta, sanguinosa e shakespeariana.
Bene, se da una parte era giusto terminare questo trip con l’immagine sovrapposta di Roger distrutto e di Nole che si mangia i consueti fili d’erba del centrale, dall’altro lato è lecito provare a ipotizzare quel che rimarrà dopo il tramonto di queste leggende. La questione del Goat sarà dibattuta a non finire, a maggior ragione se e quando Nole e Rafa supereranno i record di Federer, ma a mio avviso il re rimarrà un bel gradino più in alto, soprattutto perché la sua eredità sarà quella di un tennis visionario e romantico, necessario come l’aria a fare da contraltare alla concezione muscolare e fondocampista dominante.
Nicola Balossi