«La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie». È questa una delle spiegazioni fornite da Francisco Goya della sua acquaforte Il sonno della ragione genera mostri, la cui scena rappresenta un uomo addormentato mentre intorno a lui prendono forma sinistri uccelli notturni, volti ghignanti e diabolici felini che, come suggerisce il titolo, sono il parto della sua mente.
Tra le appartenenti all’età dell’oro delle tennis femminile sono sopravvissute l’indomabile Serena Williams, l’orgogliosa Venus, una Maria Sharapova schiaffeggiata dall’affaire Meldonium, Svetlana Kuznetsova, sempre in bilico tra luce e oscurità e Jelena Jankovic, seppure la serba pare a poco a poco dissolversi. Nell’attesa di un recupero completo da parte di Petra Kvitova e Victoria Azarenka, due eccellenze capaci di gettar mine per due anni l’una su Wimbledon, l’altra su Melbourne, vien da se’ parafrasare l’opera del maestro spagnolo e immaginare una fantomatica entità che si trasfigura nel circuito WTA il quale, ormai irrimediabilmente addormentato, è assalito da incubi raffiguranti una schiera di giocatrici fotocopia, monocordi incarnazioni della spasmodica ricerca dell’avvilente uno-due, mentre si insinua una Simona Halep che di forzato non ha proprio nulla, anzi, sembra di rimbalzo fare della propria ragione di essere un ossimoro.
Dal 2010 il vento è cambiato: veterane come Schiavone, Li, Stosur, Bartoli e Pennetta hanno fatto il loro ingresso nell’albo d’oro di prove del Grande Slam. Ancor più destabilizzante è stato forse assistere ai due slam riportati in Germania da Angelique Kerber, poi arrampicatasi sulla sommità della montagna. Un discorso che un po’ di anni or sono era valso per Caroline Wozniacki, con la differenza che la fresca maestra danese non è ancora stata accolta nell’albo d’oro di una Grande Prova.
Dall’età dell’oro al Medioevo il passo è stato breve: dopo tanti ritiri, molti dei quali anzitempo, in alcuni casi infortuni, in altri fragilità emotive, oppure incidenti e problemi personali hanno impedito tanto le elette superstiti quanto le nuove leve di spessore di mantenersi sui loro standard.
Ed ora vige il caos. Sparare pallate senza cognizione di causa ha permesso a Karolina Pliskova di diventare n.1 del mondo senza vincere nulla di veramente grosso. Seppur costantemente in preda alla discontinuità da due anni Garbine Muguruza ha preso piede al Roland Garros e a Wimbledon e, lei pure, è salita in cima al ranking. Sono poi state sufficienti due settimane da Dio sia a Jelena Ostapenko che a Sloane Stephens per entrare nella storia dello slam parigino e newyorkese. Giocatrici rispettabili ma tutt’altro che irresistibili come Cibulkova, Konta, Svitolina, Vesnina e Mladenovic si sono ritagliate spazi di primo piano. Nonostante l’ottima coda di stagione, ancora in preda alla confusione sembrano essere Keys, Garcia, Vandeweghe e Barty anche se va ammesso che tutte possiedono le credenziali per spargere un po’ di pepe sulla noia totale.
Ad ogni modo, a chiudere il 2017 come n.1 del mondo, diventando così le 25esima dell’era Open, è stata Simona Halep. Due fondamentali solidi – con il rovescio decisamente migliore seppure privo di quella potenza, di quella velocità di esecuzione da farne un colpo propriamente temibile – un servizio altalenante ma tutto sommato sicuro, tutt’altro che interessata alle proiezioni verso la rete, che difende in modo accademico, la romena ha nella rapidità di piedi e nella resistenza alla fatica i suoi pezzi forte. Quanto alla tattica portata in campo, Simona Halep si potrebbe definire una giocatrice attendista, molto oculata nella gestione del punto, scaltra nel riuscire a capovolgere situazioni difensive in offensive.
La comparsa ai vertici di Simona Halep è stata al limite dell’improvviso. Entrata in classifica mondiale a fine 2008 come n.352, quindi a diciassette anni essendo nata nel 1991, l’anno seguente ha chiuso al n.210, per quindi stazionare nei successivi tre anni tra il n.81 e il n.47. Grazie a un magico 2013 ha adocchiato la top 10 per poi entrarvi di prepotenza nel 2014. Se si analizza la carriera di Simona nel dettaglio si può apprendere come le basi per un decollo lassù, dove tirano i grandi venti, fossero sì state gettate da tempo, eppure qualcosa non quadri al 100%.
La sua storia nel circuito ha inizio nel 2007 dove si impone in due eventi da $10.000 a Bucarest, mentre l’anno seguente oltre a vincere il Roland Garros juniores e il Trofeo Bonfiglio si ripete nei due $10.000 di casa e nel $25.000 di Kristienhamn, in Svezia. Sottopostasi a un intervento per ridurre il seno, se nel 2009 ha fatto la voce grossa al $25.000 di Maribor e ha collezionato due semifinali e una finale in eventi da $50.000; l’anno seguente ha disputato la sua prima finale WTA a Fes, dove si è piegata alla ceca Benesova, per poi qualificarsi per la prima volta in un main draw di uno slam al Roland Garros, sconfitta al primo turno dalla futura finalista Stosur.
Nel 2011 Fes continua a rivelarsi stregato per la rumena, stavolta battuta da Alberta Brianti, mentre si iniziano a intravedere spicchi di sole come il terzo turno all’Australian Open e il secondo round a Parigi, a Wimbledon e all’U.S Open dove tra l’altro fa fuori la testa di serie n.6 Li Na. Le finali continuano a dimostrarsi un problema anche nel 2012, dove viene schiacciata 7-5 6-0 sulla terra rossa di Brussels da Agnieszka Radwanska, mentre il bilancio slam parla di tre primi turni e un secondo step a New York dove però racimola solo due game contro Nadia Petrova.
La vera svolta avviene dall’oggi al domani nel 2013, precisamente agli Internazionali BNL d’Italia. Fino a quel momento nell’arco della stagione aveva aveva timbrato il cartellino in tre primi turni, sei secondi turni e un terzo turno. Nella capitale romana Simona passa le qualificazioni perdendo appena sette game. Dopo aver avuto ragione su una spenta Kuznetsova, ha quindi regolato Radwanska, Vinci e Jankovic per infine cedere il passo a Serena Williams in semifinale. La battuta d’arresto nel match d’esordio al Roland Garros è un capitolo che Simona Halep si lascia alle spalle vincendo il suo primo titolo WTA a Norimberga e ripetendosi da lì a una settimana sull’erba di ’s-Hertogenbosh. A fine 2013 i titoli riposti in bacheca saranno addirittura sei in quanto si aggiungeranno Budapest, New Haven dove castiga Petra Kvitova, Mosca e il Tournament of Champions di Sofia.
Il 2014 propone una Simona Halep meno vincente, in quanto addenta solo i tornei di Doha sulla Kerber e Bucarest sulla Vinci, eppure apparentemente pronta a contendersi le Grande Prove. I quarti all’Australian Open, le semifinali a Wimbledon e a Indian Wells, le finali di Madrid, del Roland Garros e del Master potrebbero essere accolti come segnali lampanti. Raschiando poco oltre la superficie, si notano invece come molti dei meriti di Simona procedono a braccetto a circostanze fortuite: ai quarti di finale dello slam francese ha beneficiato di un infortunio sofferto da una lanciatissima Kuznetsova, a Wimbledon ha raggiunto la semifinale battendo una sola top 20, mentre il tanto decantato successo nel Round Robin su Serena al Master è infine avvenuto in una giornata in cui la regina del ranking era pressoché inesistente e il 6-3 6-0 restituitile dalla yankee in finale tanto basta per chiudere il cerchio. Dati alla mano, nell’arco del 2014 Simona di brutti momenti ne ha passati parecchi, basti pensare alle batoste rimediate i cinque primi turni, due secondi turni, nonché lo schiaffo incassato da parte di Mirjana Lucic-Baroni al terzo turno dell’U.S Open.
L’avvio di 2015 è roseo: conferma dei quarti all’Australian Open, vittorie a Shenzhen, Dubai e Indian Wells e semifinale a Miami. Il fatto che nel deserto californiano la Jankovic abbia fatto di tutto affinché il trofeo finisse nel palmares di Simona potrebbe essere catalogato nello scompartimento “normale amministrazione”. Le grandi speranze rivolte alla stagione su terra rossa si sono affievolite insieme alla semifinale persa con Caroline Wozniacki a Stoccarda, alla debacle contro Alize Cornet all’esordio di Madrid, a un’altra semifinale persa a Roma contro Carla Suarez Navarro fino al lacerante 7-5 6-1 inflittole dalla solita Lucic Baroni alla seconda tornata del Roland Garros. Il resto dell’annata, escluso lo stop al pronti via di Wimbledon e le mediocri performance negli eventi orientali; parla di due finali perse alla Rogers Cup e a Cincinnati – la prima contro la novellina Bencic, la seconda contro una mostruosa Serena – e di una semifinale all’US Open, ma con giusto quattro games strappati a Flavia Pennetta.
Veniamo al 2016. Dopo quattro mesi incerti alleviati dalla semifinale di Sydney e i quarti a Indian Wells e Miami, la nativa di Costanza è tornata in carreggiata a Madrid, dove se si esclude un set concesso alla Begu ha sempre lasciato le briciole alle avversarie. Una fredda giornata di pioggia ha forse sconvolto i suoi piani al Roland Garros, dove agli ottavi si è arresa a Sam Stosur, così come sconfortante si è dimostrato il disco rosso mostratole dalla Kerber a Wimbledon. Simona è quindi stata artefice di due prove di forza nel torneo amico di Bucarest e alla Rogers Cup. Tutt’altro che disprezzabili possono essere considerati i quarti all’US Open e le semifinali a Cincinnati e Wuhan, castigata rispettivamente da Kerber, Serena e Kvitova.
Mesta è stata l’alba del 2017 dove si è districata tra malanni e sconfitte. Le mire rivolte alla poltrona di di prima della classe hanno preso forma dai quarti di Miami, per proseguire con la semifinale di Stoccarda e manifestarsi apertamente insieme al bis di Madrid. Nonostante un piccolo infortunio patito durante la finale, persa contro Elina Svitolina, pure il torneo di Roma deve aver infuso ottime sensazioni in vista del Roland Garros, dove Simona è spiccata su Jana Cepelova, Tatjana Maria, Daria Kasatkina e Carla Suarez Navarro, per quindi vendicarsi sull’ucraina al termine di una rimonta surreale e avere ragione su Karolina Pliskova in semifinale, finché, opposta all’ultimo atto a Jelena Ostapenko, sul 6-4 3-0 0-30 tutto in proprio favore, ha letteralmente perso la bussola vedendo così sfumare la possibilità di vincere la sua prima grande prova e diventare matematicamente n.1 del mondo. Speranza quest’ultima che, dall’erba inglese al cemento nordamericano, si è sempre mantenuta in bella vista seppure le randellate prese da Elina Sviolina in semifinale a Toronto e da Gabrine Muguruza nella finale di Cincinnati, custodissero presagi infausti. A Simona Halep è mancata quella marcetta in più pure all’US Open, subito battuta da Maria Sharapova, e a Wuhan, placata al secondo step dalla Kasatkina. L’incubo del n.1 ha conosciuto la sua fine a Pechino. Bastava una finale e la romena è riuscita a gettarvisi dentro con il classico colpo di reni, o con la forza della disperazione, chissà. Di certo, l’aver perso la finale cinese contro Caroline Garcia e l’eliminazione al Round Robin del Master hanno reso agrodolce un traguardo che Simona avrebbe meritato di godersi fino in fondo.
Ricapitolando, per chiudere l’annata con al collo la coccardina di reginetta del 2017 Simona Halep ha conquistato un titolo WTA, ha disputato una finale slam, ha raggranellato tanti piazzamenti e patito svariate tribolazioni. Si potrebbe concludere la riflessione con un filosofico: piaccia o no, questo è quanto passa il convento. Una constatazione che va oltre agli innegabili meriti di Simona Halep, indubbiamente un’interprete di buon talento contraddistinta da un’ottima tempra, eppure nata al di qua dai cancelli del Monte Olimpo. Un’analisi che si estende alle eroine passate e presenti, colpevoli di aver lasciato anzitempo, di essersi perse lungo il cammino, di aver continuato a vivere dei fasti dei tempi che furono. Un effetto domino che ha generato uno tsunami di proporzioni apocalittiche, capace di spazzare va, a poco, a poco, la civiltà eletta. Il tutto mentre il Circuito WTA dorme, in preda agli incubi…