La dittatura della noia

Ci sono situazioni nelle quali, fare il cronista, risulta difficoltoso. Sono, questi, i casi di estremismo, positivi o negativi che siano, dove da un lato il rischio di sfociare nella banalità di un discorso già sentito aleggia sfiorandoti la spalla con insistenza, mentre dall’altro il filo sottilissimo sul quale camminare finisce spesso con la creazione di un articolo dal poco tatto giudicato brutale dagli attenti lettori. 

È quella di oggi, nello specifico, una circostanza appartenente al ramo del radicalismo, dove per l’undicesimo titolo monegasco di Rafa Nadal in tanti hanno già speso parole stracolme di lodi smielate che hanno il sapore dell’acida monotonia. Sono imbarazzato, lo confesso, nel narrare le gesta di un uomo capace, senza particolare sforzo, di alzare al cielo il trentunesimo titolo 1000 della carriera, staccando Djokovic e divenendo primatista assoluto in questa categoria di appuntamenti, ben sapendo di dover muovere, a questa idillica scena, una critica, per dare una scossa ad un panorama dittatoriale che, se lasciato avanzare in totale tranquillità, finisce per assopire pubblico ed avversari. 

La finale giocata oggi con Nishikori, che si è probabilmente trovato, durante la premiazione, a pensare come sarebbe stata la sua carriera se fosse nato una decina di anni dopo, è stata l’emblema di una situazione venutasi a creare in un breve lasso di tempo. Pur con traccianti sbalorditivi, colpi giocati con tale maestria da ambo i lati del campo facendo apparire comodo ad una platea presente al gran completo un dritto lungolinea che spolvera l’incrocio o un celere rovescio bimane che fende l’aria con un fischio, in campo, a prevalere, è stata la prevedibilità. 

Il peggior Nadal della settimana, falloso, confuso e stanco, lascia cinque game a colui che, nel corso della settimana, ha dimostrato di essere il meno incline allo scoraggiante modo di fare che molti adottano nei momenti di difficoltà vissuti durante un match. È frustrante, da un certo punto di vista, perché persino per me, storico tifoso di Nadal, assistere ad un totalitarismo di tale intensità risulta, con il passare del tempo, un plumbeo medicinale narcolettico, frutto, più che del gioco, dell’impressionante sottomissione psicologica tornata ad essere esercitata dallo spagnolo dopo anni di oblio. 

Da amante del gioco chiedo tennis, tennis ed ancora tennis. Le corse in solitaria, storicamente, pur offrendo il brivido e l’aura di leggendaria impresa dovuta alle numerose vittorie in serie, tolgono al gioco il brivido dell’inaspettato, trasformandolo in un robotico programma del quale si conosce già il risultato finale. 

Ho avuto l’impressione di dover in futuro assistere ad una simile sciagura quando, a metà primo set, Nadal ha strappato il servizio al giapponese, in precedenza passato in vantaggio di un break, senza rendersi protagonista di alcuno spunto meritevole di replay. 

Rafa urla un “vamos” ormai nemmeno a pieni polmoni, aggiunge rotazione ad un dritto spinto nell’angolo a lui destro, esegue un passettino avanti e l’altro sbaglia, schiacciato dall’ingombrante sagoma di un avversario imbattibile che lo torchia sui teloni impedendogli il respiro. 

Non c’è gioco, è tutta mentalità. 

La cronaca racconta una domenica di aprile nella quale il più grande giocatore mai visto sul terreno vermiglio (al quale persino Borg non può essere associato), demolisce in due set un avversario impotente al suo cospetto. Il principe sorride, accompagnato dalla consorte, Nadal afferra il microfono e recita il prestampato discorso di ringraziamento. Montecarlo pare un’isola incantata, la porpora dei campi contrasta alla perfezione il blu del mediterraneo. 

Tutto è placcato di una lastra del colore della perfezione, ma da una piccola frattura il grigio dell’inedia intacca la terra dei campi. 

Spero questo non sia altro che un grande abbaglio. 

 

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