La nuova autobiografia di Maria Sharapova è un’occasione mancata?
Michele Alinovi
Sono passati otto anni dalla pubblicazione di “Open”, la più bella autobiografia mai uscita nel mondo del tennis – e, forse, dello sport tutto – sublimemente scritta da Andre Agassi, o per meglio dire del Premio Pulitzer J. R. Moehringer. Da allora il genere autobiografico ha conosciuto una proliferazione ipertrofica e scellerata. Oggi tutti coloro che abbiano raggiunto un minimo di notorietà scrivono libri sui fatti loro: sportivi, starlette, filosofi, cuochi, businessmen, artisti (e pseudo-tali). Pare quasi che oggi la pubblicazione di un libro sulla propria vita sia come una sorta di legittimazione concreta di una fama spesso frivola e volatile che si ha, cum magno gaudio delle case editrici, che ormai pubblicherebbero anche la più immonda ciofeca per rinvigorire le casse sempre più stagnanti. Questa moda naturalmente ha interessato anche i più blasonati sportivi, i quali però hanno preso il brutto vizio di scrivere autobiografie prima del ritiro (tanto per rimanere nel tennis, si pensi a “Dritto al Cuore” di Flavia Pennetta, uscito prima che vincesse Indian Wells e Us Open).
Malgrado i cattivi presentimenti, aspettavo con ansia l’uscita di “Unstoppable: My Life So Far”, la (prima) autobiografia di Maria Sharapova in uscita il 12 settembre, inarrivabile icona non solo del tennis ma anche dell’epoca che stiamo vivendo. Certo, sapevo benissimo che la pubblicazione del libro era una macroscopica operazione commerciale, un tentativo mirabilmente studiato a tavolino di mondare l’immagine della campionessa eroica e indistruttibile infangata dall’ombra del doping ma capace di risorgere dalle proprie ceneri. Mi aspettavo già che in quel libro ci sarebbe stato il doloroso racconto di quei durissimi giorni in cui la bella Masha si ritrovò a comunicare al mondo che lei, l’irreprensibile regina del tennis, aveva assunto il meldonium, una sostanza ritenuta dopante dall’Agenzia Mondiale Antidoping. Mi aspettavo anche l’accurata descrizione del lungo periodo di squalifica, magari le commoventi descrizioni dei mesti giorni passati a guardare in tv, coricata sul divano, le colleghe che si contendono i grandi tornei (come fra l’altro aveva già raccontato in un suo post su Facebook, per convincerci che anche lei è, in fondo, una persona normale). Mi aspettavo tutto questo e infatti, leggendo le prime anticipazioni, non mi sbagliavo. Ma alla fine, ci sta anche questo, perché in linea con il marchio “Maria Sharapova” che si è costruita (e che le hanno costruito) negli anni, un capolavoro di marketing di successo che rende oro tutto ciò che tocca ma dove ben poco in realtà è ciò che sembra.
C’è però una cosa che non mi sarei aspettato da un libro di Maria Sharapova, cioè i commenti ben poco eleganti su Serena Williams, riportati ormai da giorni da molte testate internazionali. Che nell’autobiografia si parlasse a lungo della rivalità con Serena Williams non avevo dubbi (purché di rivalità si possa ancora parlare quando sei sotto 2 a 19 negli scontri diretti), ma credevo che l’algida Maria ci risparmiasse inutili frecciatine e virgolettati evitabilissimi e tutti da dimostrare. E invece no. L’episodio risale alla finale di Wimbledon 2004, primo scontro fra le due, vinto da una Sharapova allora 17enne:
«Quando il match finì Serena mi abbracciò e mi disse: “ben fatto”. Mi sorrise, ma dentro di sé era furiosa.
Ero nello spogliatoio dopo il match e l’ho sentita piangere, singhiozzare. Me ne sono andata il prima possibile, ma lei sapeva che io fossi lì dentro.
Le persone mi chiedono come mai io abbia tutti questi problemi con Serena: i miei precedenti con lei sono 2-19. Per me, la risposta è in quello spogliatoio. Penso che Serena mi abbia odiata da quel momento, quella ragazzina magrolina che l’aveva battuta contro ogni pronostico sul centrale di Wimbledon. Soprattutto però pensa che mi abbia odiata perché l’avevo sentita piangere nello spogliatoio.
Non molto tempo dopo, ho sentito che Serena aveva detto ad una sua amica: “Non perderò più contro quella piccola stronzetta [“I’ll never lose to that little bitch again”]».
Come riportano i giornali, ci sarebbero altri dettagli poco cortesi, ai limiti dei pettegolezzi, riguardo a Serena Williams, che ancora oggi – sempre parole sue, o meglio del suo ghostwriter –, in generale sul rapporto con le altre colleghe, le maldicenze prima e dopo la squalifica per doping e altri frivoli commenti sulla sua vita privata. Come ad esempio il fatto che lo shopping sfrenato di gioielli di lusso e borse firmate da Bulgari e Chloé sia stato una cura determinante contro la depressione post-ritiro temporaneo coatto (dichiarazione che cozza un po’ con la straziante immagine di Maddalena tragica sconsolata che guarda il tennis alla tele in compagnia del suo gatto).
È vero, oggi molti criticano i libri altrui prima ancora di averli letti: non mi piace unirmi a questa tendenza e mi auguro di essere smentito. Può essere che le anticipazioni dell’autobiografia pubblicate dai giornali siano un’amplificazione distorta e non veritiera di ciò che in realtà è. Ma l’impressione molto forte, e temo veritiera, è che l’autobiografia di Maria Sharapova sia una grande occasione mancata. Com’è stato per Agassi, la vita e il personaggio di Maria Sharapova si sarebbe prestata per un romanzo eccezionale e definitivo, una bella storia su un mito del tennis, scritta magari da un altro Pulitzer, o un Nobel per la Letteratura – magari scritto fra dieci anni, tempo dopo il ritiro, e non ora che di anni ne ha trenta e la sua carriera è tutt’altro che finita. Ho ragione di credere, invece, che la scelta di Maria sia stata quella di pubblicare in fretta e furia un libro usa-e-getta da mandare in pasto agli appassionati. Guarda caso, l’autobiografia esce pochi mesi dopo il suo ritorno in campo, subito dopo gli Us Open (chissà, avranno pensato gli editori, se lo avesse vinto il libro avrebbe venduto qualche milione di copie in più). Più che un racconto definitivo della sua vita, “Unstoppable” sembra più da una parte una strategia per ribadire l’immagine dell’eroina afflitta e costretta a pagare un prezzo troppo alto per i suoi errori d’ingenuità; dall’altro, una ghiotta occasione per lanciare malcelate frecciatine e piccole rivincite, riducendosi ai meri pettegolezzi (anche Agassi non le aveva risparmiate – vedi l’accusa della presunta avarizia di Sampras – ma erano più curiosi e piccoli aneddoti all’interno di una storia onesta e bellissima).
Ribadisco, aspettiamo di leggere il libro per intero e solo dopo potremmo emettere un verdetto finale, che a lei di sicuro non interesserà meno di niente. Leggo ora che il suo libro è primo nella lista fra i più ordinati di Amazon e prevedo che a partire dal 12 settembre se ne parlerà ancora di più di quanto non si è fatto nelle ultime settimane.
La stella di Maria Sharapova è sempre luminosa, e le critiche – così come le lodi – non fanno che renderla ancora più brillante. Questo lei lo sa benissimo, suppongo, e se non fosse per il giro di decine di milioni di dollari che ogni anno crea, direi che su questo ci gioca. Le piace maledettamente giocarci, proprio come su un campo da tennis.