Lo Us Open a porte chiuse potrebbe essere un’esperienza anonima e noiosa

Una riflessione sulla possibile, ma ancora lontana, ripresa delle competizioni tennistiche internazionali. Il pubblico, nel tennis, è più importante di quanto si possa credere, soprattutto allo Us Open.

Prendendo spunto dal riflessivo articolo apparso questa mattina su iNews.uk, abbiamo provato ad immaginare come potrebbe essere il tennis alla ripresa. Una ripresa, eventualmente, a porte chiuse, che intacca l’essenza dello sport tutto. Ma di una disciplina come il tennis soprattutto. Un piccolo assaggio, dal sapore amarissimo, ce lo ha dato la serie di esibizioni organizzata da Tennis Point per i tennisti tedeschi.

La riflessione di James Gray parte infatti proprio dalla partita tra Dustin Brown e Jan Choinski. Un match in cui il tennista di origini giamaicane, il più blasonato partecipante della suddetta serie di match, ha regalato una delle sue perle. Una palla corta a chiamare l’avversario a rete per chiudere con lob in tweener, frontalmente alla rete. E di cosa possa essere il tennis senza pubblico, di quanto si nutra di quest’ultimo, ancor più di altri sport, è apparso chiaro proprio dal video dello straordinario punto. Superato l’avversario, forse istintivamente, forse per rendere ancora più grottesca la situazione di proposito, Brown ha mosso le braccia come ad aizzare la folla. Come a dire: “Non vi sento”. Perché in effetti non li sentiva, per una situazione surreale, che rende tutti, praticanti e appassionati, piccoli e insignificanti di fronte ad una pandemia. Per quanti giorni, in uno svolgersi normale dei circuiti maschile e femminile, avremmo visto riapparire il tweener di Dustin Brown? L’Atp, che ha diffuso il video sui suoi social, avrebbe probabilmente raccolto tutti i punti simili a quelli del tedesco, per farne un video da dare in pasto a noi “malati” della racchetta.

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E invece, non solo nessuno ha potuto rispondere all’invito di Brown ad urlare di fronte ad una magia tennistica. Non solo in pochissimi hanno potuto vedere la partita in tutto il mondo. Ma la prodezza è passata inosservata, quasi come fosse la cosa più semplice del mondo. Non solo perché l’autore è, per l’ennesima volta uno che sull’erba ha sorpreso per due volte Rafael Nadal. E non solo, certamente, perché la posta in palio, per chi anche ha assistito alla partita in streaming, era ovviamente nulla. È chiaro che se i nomi fossero stati ad esempio Richard Gasquet e Diego Schwartzman, in un secondo turno di uno Major, pur a porte chiuse, la risonanza sarebbe stata tutt’altra. Se domani iniziasse lo Us Open, senza pubblico, è vero che si parlerebbe di tabelloni, di classifica. Della caccia di Novak Djokovic ai due rivali, o del possibile aggancio di  Rafa Nadal al primo posto per numero di Slam vinti insieme a Roger Federer. E di conseguenza ripartirebbe anche la tiritera mediatica sul passaggio di consegne, riflettori puntati sulla Next-Gen, ancora alla ricerca del primo acuto nei quattro tornei più importanti. Al femminile sarebbe ancora tutto imprevedibile, Serena Williams potrebbe addirittura perdere la sua terza finale di fila a New York. O magari, finalmente, trovare il lieto fine che cerca dal giorno in cui la figlia Olimpia Ohanian è nata.

Ma poi inizierebbero le partite. Sulle norme di sicurezza, ovviamente, poco da dire. Tanto che nazione per nazione, seguendole, si prova a ricominciare. Non solo per rimettere in moto l’economia dei circoli, ma anche perché senza tennis, chi si diverte soprattutto a giocarlo, non sa stare. Ed infatti giocherebbero anche nei peggiori campetti del mondo, pur di poterlo fare. Ma per il tennis di una certa risonanza, anche quando si parla di Brown e Choinski, o di più, di un torneo ufficiale e internazionale, la questione è complessa. Il pubblico diventa fondamentale, perché il tennis è uno sport pieno di tempi morti. Da un punto all’altro passano 25 secondi più o meno e ci sono i cambi campo. Il pubblico sugli spalti, in un certo senso, tiene incollato anche chi lo sport lo guarda dalla tv. Provate ad immaginare il quinto set della finale di Wimbledon senza i fan scatenatisi (soprattutto quando a vincere sembrava dover essere Federer). A tennis non ci sono limiti di tempo, è difficile che una partita duri meno di un’ora, ma è anche facile che si arrivi alle tre ore. Nelle partite più importanti, quelle al tre su cinque, le tre ore diventano quasi conditio sine qua non. C’è da scommettere che, senza qualcuno che riempie i vuoti, perfino una finale Nadal-Federer al prossimo Us Open avrebbe un impatto emotivo sui telespettatori nettamente minore. E forse anche sui giocatori. Anche per i più accaniti sarebbe qualcosa ai limiti del noioso stare davanti al teleschermo. O meglio, non si perderebbe interesse affatto per il risultato. Ma potrebbe venir meno la forza di riuscire a vederlo mentre si concretizza. Che differenza ci sarebbe tra una diretta e una differita, ammesso che si riesca pure a stare sul divano per quattro ore?  Che sapore avrebbe un championship point senza pubblico? Forse, oltre che insapore, non avrebbe senso di esistere. Allo Us Open dedica molto spazio nella sua autobiografia proprio Nadal. Perché l’ultimo Slam è l’antitesi più assoluta di Wimbledon. Si gioca nel frastuono più totale e la musica più assordante. Ma nelle casse dell’Arthur Ashe, senza nessuno ad urlare a squarciagola, anche “Sweet Caroline” di Neil Diamond, o “Don’t stop me now”, perderebbero tutto il loro fascino.

È vero che su due piedi, se ci dicessero che da domani si inizia a Flushing Meadows, accenderemmo ogni sorta di dispositivo. Anche per due, tre, quattro partite in contemporanea. Perché, caro Tennis, ci manchi davvero tanto. Ma a porte chiuse, la nostra euforia durerebbe davvero per due settimane? Col senno di poi, in parte è stato incompreso mesi fa LeBron James quando diceva: “A porte chiuse non gioco”. Una stoppata in Gara-7, nel quarto quarto, senza la folla in delirio, avrebbe un effetto quasi nefasto anche su chi segue dalla tv. Le industrie dello sport ripartirebbero. Ma non sarebbe la stessa cosa.

Arthur Ashe Stadium
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