Nick Kyrgios è tornato a far parlare di sé. Senza mezzi termini, come al solito, ha ribadito il suo tipo di rapporto con il tennis. Un rapporto totalmente differente da quello possiamo osservare in quei giocatori che oggi prendiamo a modello. E nella promozione del neonato circuito Ultimate Tennis Showdown, Patrick Mouratoglou lo ha elogiato per come riempie gli stadi nonostante le sue contraddizioni.
“Non voglio vincere Slam e non penso che il mio fisico reggerebbe a sette match di fila, tre quattro ore ognuno”. Ha esordito così il tennista australiano, ponendo non solo l’accento sulla lunghezza dei match, ma soprattutto su di sé, sulla sua non-volontà. La volontà, invece, è quella di “giocare alla mia maniera, divertirmi”. Parole che sembrano sposare quelle su cui nasce l’idea del nuovo circuito di Patrick Mouratoglou. Il suo Ultimate Tennis Showdown è pensato per i giovani, che difficilmente si avvicinano ad uno sport la cui durata media delle partite si avvicina spesso alle due ore. Due ore però piene di tempi morti, che, come fa notare The Coach, influiscono sull’età media degli appassionati, addirittura vicino ai 61 anni a sentirlo. Una rivoluzione pensata per il bene del tennis, per il suo futuro. Un futuro in cui la frattura con i principi del gioco che conosciamo è nettissima. Niente più game e set, ma quattro quarti da 10 minuti (pensati in realtà come i set, e che si aggiudica chi mette a segno più punti). Chi vince prima tre quarti porta a casa la partita. In caso di 2-2 il sudden-death in una forma che ancora non si capisce bene, e che ancora dovremo aspettare per vedere. L’emergenza pioggia a Nizza ha rinviato infatti l’inizio dei match almeno fino a lunedì.
Per ora, l’ambizione di Mouratoglu, intervistato da Ubaldo Scanagatta e Steve Flink, è quella di attirare persone. Poi magari stabilizzare il circuito nella coesistenza con l’Atp e la Wta (che ancora dovrà però attendere per avere la propria versione dell’UTS). Per avvicinare il pubblico, l’intento è anche quello di un codice di condotta più leggero: “Federer, Djokovic e Nadal saranno anche diversi, ma oggi la gara è a chi è più politicamente corretto”. Poi si butta sulla varietà, che a suo dire oggi manca: “Voglio i due estremi Kyrgios e Borg. Quel contrasto che negli anni Settanta e Ottanta attraeva gli spettatori, con i giocatori che potevano essere sé stessi in campo”. Slogan potenti quelli del greco-francese, che di Kyrgios fa notare come “riempie gli stadi” proprio per la sua unicità.
Frasi che però non sembrano reggere su basi molto solide. Nel 2020, infatti, un personaggio politicamente corretto è diventato il prototipo del campione. Ma non sembra, tale immagine, essere solo figlia del durissimo codice di condotta del tennis. Non sembra che oggi si diventi politicamente corretti sul campo e anche nella vita: “Dicono tutti le stesse cose”, fa notare l’allenatore di Stefanos Tsitsipas. È così però, o almeno sembra, che oggi si educano i personaggi pubblici. Ed è così che la gente li vuole. Tanto che prototipi simili a quelli dei Big Three sono i più amati anche in altri sport. Tanto che Kyrgios, pur osannato da Mouratoglou, in sei anni ad alti livelli non è riuscito ad abbassare l’età media degli appassionati. E non si può certo addurre come motivazione che fosse il solo giocatore non esattamente ortodosso. Si potrebbe dire, invece, di più, che non è il giocatore che si vuole fino in fondo. Non il giocatore che avvicina persone per cui il tennis è sconosciuto, non il giocatore per cui si può creare una solida fanbase, elemento fondante dello sport di massa moderno. Discorso che vale per lui, ma anche per un altro giocatore come Fabio Fognini, che spacca la folla e non crea un fenomeno di massa. Kyrgios resta un giocatore anti-conformista, che vuole tifosi anti-conformisti. Un tipo di tifosi che non potrà mai essere la maggioranza degli appassionati ad uno sport. E la sua pur breve storia, dimostra come abbia riempito sì gli stadi, ma non necessariamente (e anzi, guardando all’età media quasi mai) di nuovi appassionati. Chi lo guarda è chi ha visto giocatori come McEnroe e ne sente la mancanza, o chi comunque già appassionato ne comprende l’unicità e ne è affascinato.
Il nuovo format pensato da Mouratoglou cambia profondamente lo sport che conosciamo. Lo rende un prodotto, piaccia o meno, definito dallo stesso ideatore (e senza pudore) di consumo. Uno sport che sacrifica quasi del tutto la resistenza fisica e mentale e punta sul pathos dell’inesorabile. Su scelte obbligate tatticamente, anche di tennisti che non oserebbero uscire dalla “comfort zone”, che potrebbero dare esiti però imprevedibili. E di conseguenza un tennis che forse uccide ancor di più gli specialisti, ma premia tennisti, anche se forse non più atleti formidabili, completi. Il cronometro, che rende il tutto più fruibile, può forse avvicinare nuovo pubblico e più giovane, anche se uniforma il tennis a molti altri sport che già conosciamo. Il codice di condotta meno pesante sembra poter favorire tennisti in grado di lasciarsi andare. A patto però che si capisca che un John McEnroe oggi non sarebbe lo stesso di quello che fu. A patto che la ricerca di personaggi del genere non diventi spasmodica, il che potrebbe togliere naturalezza al format più che aggiungerla. Come in tutte le cose, nel tennis domina il principio di azione e reazione. Ma è un principio che agisce naturalmente e che non è più tale se viene forzato.
Un cambiamento è quasi unanimemente necessario, una rivoluzione forse poco digeribile. Ed è un cambiamento che può quasi esclusivamente contare sulla riduzione dei tempi morti e della durata della partita. Qualsiasi sia lo sport, anche che sia il più breve per durata e il più semplice da seguire, la ricerca di comportamenti differenti non sembra più poter fare la differenza. Non sempre un Kyrgios che afferma provocatoriamente: “Vorrei che a contare fossero solo le birre dopo i match”, che è tutto fuorché politicamente corretto, ringiovanisce le platee. La nuova generazione è quella guarda storto i coetanei che consumano ancora carboidrati tutti i giorni e non vanno in palestra. Una generazione che di riflesso nello sport professionistico cerca il principe supremo che è divorato dall’etica del lavoro e dall’ambizione, e che per obbedirvi non perde tempo in utili proteste.
È doveroso che vi sia varietà di stili e di atteggiamento. Ma questo, paradossalmente, è un punto a cui tengono di più i milioni di tifosi già appassionati, più che quelli che invece oggi cambiano canale. Quello dell’età media dei tifosi è un terreno paludoso, ma può essere anche uno studio interessante da fare nel dettaglio. Di certo, una nazione come gli Stati Uniti, che presumibilmente fornisce il maggior numero di tifosi al tennis, è forse anche quella che influenza maggiormente tale statistica. Sarebbe da raffrontare, quindi, l’età media di un paese il cui ultimo vincitore Slam rimane Andy Roddick, con l’età media dei paesi che hanno vissuto la loro epoca d’oro con i Big Three. Poi sarebbe interessante da valutare una nazione di illustre tradizione come l’Australia, che dopo una lunga crisi affianca ora il fenomeno Alex De Minaur a Kyrgios. E infine il Canada e soprattutto l’Italia, che sembra il movimento più promettente al mondo con Jannik Sinner che è ora il volto dei più giovani. La palla passa a Mouratoglou e agli organizzatori dell’Ultimate Tennis Showdown, ai posteri l’ardua sentenza.