Tra Nadal e Dimitrov è mancato lo spettacolo.
Tralasciando il risultato, un misero 6-4 6-1 che nulla ha da raccontare ad un pubblico corso ad acclamare l’icontrastato sovrano della superficie rubra ed il bulgaro iconoclasta, distruttore della sacra immagine che per lunghi anni, sottomettendolo, lo ha visto somigliare al ben più grande Federer, ciò che colpisce, oggi ancor più che i giorni scorsi, risulta essere la totale supremazia, psicologica e tennistica, dello spagnolo nei confronti di chiunque provi ad interrompere un’egemonia divenuta ormai prassi. Il Nadal visto oggi nel primo set, con un lieve innalzamento di livello avuto nel secondo, è un giocatore di poco superiore al cinquanta per cento del proprio valore effettivo, poco incline all’accettazione di un errore che abbia soltanto la parvenza di un orrido gratuito e meno incisivo con le traiettorie paraboliche costantemente alla ricerca del rovescio avversario, così incline, per natura monomane, alla sottomissione nei confronti dell’uncino.
I cinque game conquistati da Dimitrov, che pur tecnicamente rimane esente da ogni imperfezione, non sono infatti altro che il frutto degli errori spagnoli, senza i quali, immagino, il bulgaro avrebbe difficilmente conquistato più di due giochi. È così, attualmente. Il numero uno del mondo può fregiarsi di una superiorità tale da non consentire al numero cinque la possibilità di aggiudicarsi qualcosa, se non la miseria di qualche quindici. Dittatura impressionante, nei confronti della quale risulta difficile persino compiere un parallelismo storico.
A livello di numeri, questa tirannide punicea consente al maiorchino il raggiungimento della finale numero quarantasette in un Master 1000, eguagliando il perpetuo rivale Federer e rendendo così naturale il paragone dell’autartica supremazia dimostrata dai due sulle superfici predilette. Di dominio pubblico è infatti l’acceso dibattito che tenta di inserire in una scala di misurazione il dominio spagnolo sulla scarlatta polvere, confrontandolo con il feudo instaurato dal Vate nel giardino britannico da sempre trattato con particolare ossequio in quanto casa natale del tennis inteso in ottica di estrema ristrettezza. Si incrociano numeri, titoli, finali, scontri diretti, anni bisestili e congiunzioni astrali, tentando invano di uscire matematicamente da un dilemma nei confronti del quale l’insensibile freddezza dei numeri nulla può se non offrire una visione materialistica e concreta dell’insieme.
La verità, e lo scrivo sapendo di attirarmi l’ira della folta platea distesa ai piedi del demiurgo svizzero attualmente in villeggiatura, torcendo il naso a tutto ciò che paia avere le sembianze di un granello d’amaranto, sta nel fatto che l’imbarazzante superiorità mostrata da Nadal sulla terra, altro non sia che il più grande governo totalitarista mai avuto nella storia del tennis.
Non esistono paragoni che reggano, teorie che neghino l’evidenza dei fatti, che confutino una teoria dai fondamenti dogmatici come quella appena espressa. Nadal ed il rosso sono due elementi appartenenti allo stesso insieme, che di due termini è composto. Lo yin e lo Yang, complementari fra loro, indispensabili l’uno all’altro per un mutuo completamento. Rafa incarna il gioco su terra rossa, ed è con questo che porta a lezione avversari e pubblico ottenendo l’ennesima di una serie illimitata di finali sul fango da alcuni disprezzato. Il dritto incrociato salta in prossimità della riga alla quale si avvicina con insistenza asfissiante. Il rovescio incrociato stringe gli angoli torturando le gambe di chi è costretto a rincorrerlo. La smorzata per chiudere di tocco, il vincente lungolinea per far seguire allo schiocco un grido di stupore.
Opera d’arte in movimento. Così è, se vi pare.