Di partite brutte nella mia vita ne ho viste tante.
Oggi, però, carico di speranza e buona volontà, ho deciso, temerario come sono, di accettare il rischio, sedermi e gustarmi dal primo all’ultimo quindici l’emozionante sfida che vedeva opposti Novak Djokovic e Fernando Verdasco.
Non l’avessi mai fatto.
Un clima di bigio torpore fa da gentile sfondo al trionfo in solitaria di sbadigli e palpebre cadenti, causati dalla pioggia di errori plasmata dai due simpatici sfidanti.
Da una parte, infatti, il vegetale serbo, ingarbugliandosi tra i suoi stessi gommosi arti, sparacchia nel nulla i rigidi colpi, costantemente mal posizionato e fuori tempo nell’esecuzione del plastico rovescio, finito, più di una volta, in prossimità del confine tra Russia e Cina.
Una strana sensazione di inesistenza mi porta poi, fantasioso come sono, a paragonarlo al più famoso Cavaliere di Calvino, cioè Tomas Berdych, per eccellenza colui che gioca senza esserci.
Nessun cenno di reazione per il povero Novak, sconsolato e svogliato come mai prima d’ora.
Fortuna vuole, però, che dall’altra parte della rete soggiornasse, in solitaria villeggiatura, uno dei tanti perdenti d’eccezione (ed anche qui il fantasma di Berdych aleggiava insistentemente).
Lo spagnolo, incredulo al cospetto degli smilzi colpi del rivale, scambiato in un istante per Sara Errani, domina giustamente l’incontro, procurandosi, senza il bisogno di spingere troppo, cinque appetibili match point.
Sadico, decide di prolungare la mia sofferenza, prolungando il match ad un terzo set da minaccia di morte.
Errori, pallate, rantolanti scheggiate.
Un tripudio di stomachevoli quindici si concludono con la logica vittoria dello smorto serbo, che, generoso come pochi, regala simbolicamente il suo cuore allo schifato pubblico, che lo accoglie con espressione corrucciata.
In finale, per lui, si prevede una sfida contro l’attuale numero 1, che, ad oggi, ha quell’intrinseco sapore di assoluta batosta.
Ma sono buono, ed amo questo sport, lasciandomi dunque il discreto beneficio del dubbio.
Però dai, per una semifinale, niente male.