La carriera professionale di Novak Djokovic non è altro che un sommarsi di contraddizioni che, con il tempo, hanno imparato ad amalgamarsi.
L’assurdo duopolio di due metà antitetiche hanno segnato permanentemente la vita ed il ricordo dello stesso serbo che oggi annuncia, prima in inglese e poi in serbo, la decisione di saltare l’intera seconda parte di stagione. È finzione, la sua, nell’ostinarsi a sorridere e chiudere il proprio discorso con un eloquente “la vita è bellissima ragazzi, vi mando tanto amore”, dopo essere stato costretto ad un annuncio che in tanti anni di carriera aveva avuto il privilegio di ascoltare soltanto da spettatore.
Per sei stagioni, dal 2011 al 2016, il militarismo serbo è stata la più grande dittatura che mai si sia vista su un campo da tennis. Ventidue Slam giocati, diciotto finali raggiunte ed undici titoli conquistati (nei quattro rimasti, tre semifinali ed un quarto).
Esistono numerose teorie, spesso astratte, che tentano di spiegare il motivo per il quale Djokovic non sia mai stato amato, quanto un tennista del suo calibro avrebbe meritato, dal grande pubblico. La realtà, tra tante illazioni fascinose e non, è una soltanto.
Nole, raggiunto l’apice della propria carriera, ha dimostrato di saper gestire e battere entrambi i propri rivali. Non per colpi e ancor meno per questioni tattiche per le quali, a mio avviso, Federer e Nadal rimangono i migliori. Ha disposto a suo piacimento prima dello spagnolo, raggiunto sul piano specifico di mobilità e resistenza ed infine superato dal punto di vista della continuità fisica, e poi dello svizzero, compensando l’evidente inferiorità di colpi con una forza caratteriale che sempre è stata la reale (e forse unica) pecca del gioco di Roger. Non ostinatamente contrario alla sconfitta e nemmeno plasticamente perfetto, ma più incisivo.
Giunto però al completamento di un percorso divenuto ossessivo, la vittoria del Roland Garros, ecco una nuova dicotomia dell’intricata storia. Dalla perfezione, curata in modo maniacale partendo da una dieta divenuta religione, al caos. Inutile è elencare le sconfitte di un anno di delusioni. Su una cosa, però, sono certo. La ragione per la quale, ora, Djokovic si concede un lungo stop mettendo fine ad una striscia di cinquantuno Slam giocati consecutivamente, non è mancanza di motivazioni.
La caduta psico(ancor prima che)fisica era già visibile quando, ad inizio 2016, si impose nei master di Miami ed Indian Wells per poi concludere con il botto la stagione su terra. Non sono in grado di spiegarne il motivo, probabilmente nessuno lo è, ma in una macchina costruita sotto le bombe della tremenda guerra civile che alla fine del ‘900 devastò la Jugoslavia, sono simultaneamente venute a mancare forza e volontà.
In un disperato (quanto celato) tentativo di riscatto, complice un infortunio al gomito, opta quindi per la via che lo scorso anno, i soliti due, scelsero di intraprendere.
L’annuncio arriva il 26 Luglio, esattamente un anno dopo quello di Federer.
C’è chi parla di scaramanzia, superstizione o motivazioni ultraterrene.
Non tutti, ovviamente, possono essere Rafa o Roger. Il primo è abituato da anni di stop forzati e ritorni al vertice, il secondo ha dimostrato di aver gestito al meglio il tanto tempo datosi a disposizioni.
Per Nole sarà un’esperienza nuova.
Non credo che la pausa possa giovargli al livello in cui lui stesso, immagino, si aspetti.
Semplicemente il Novak Djokovic che negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere, non esiste più. Tornerà, di certo, e sarà anche in grado, magari, di vincere altri Slam, ma non sarà più lo stesso. L’inossidabile robotica applicata al tennis è sparita.
Come scrissi in tempi non sospetti, Novak Djokovic è diventato inesistente.