Ho ancora le dita che mi tremano mentre cerco, probabilmente invano, di articolare frasi di senso compiuto su una tastiera. Perché il momento di oggi, 11 settembre 2015, a 14 anni da una data così tragica, è un momento storico e indimenticabile per chiunque ami visceralmente il tennis, e in particolar modo il tennis italiano.
Accade che oggi due tenniste, ma per prima cosa due ragazze italiane conquistano la finale di un torneo, l’una contro l’altra. E non un torneo qualunque, ma uno Slam: gli Us Open, quelli dove di solito vincevano la Evert, la Graf, le Williams. E proprio queste due ragazze, Flavia e Roberta – questi i loro nomi – 20 anni prima erano migliori amiche, ragazze come tante, che giocavano a tennis. Ma non si trovavano a Bradenton da Bollettieri o allo Spartak Tennis Club, a Mosca, ma in Puglia, tra Taranto e Brindisi. Qui Oronzo Pennetta aveva avviato Flavia nel suo Tennis Club, qui la figlia aveva conquistato le prime vittorie. In quei campi giocò anche Roberta, con cui si trovò fin da subito bene e con cui decise di disputare i primi tornei di doppio prima in Puglia, nei tornei under 12, e poi in giro per la Penisola e la Sicilia, ovviamente. Non ci volle molto tempo che le due conterranee diventassero tra le più grandi promesse italiane, vincendo – non ancora maggiorenni – il Roland Garros junior e il trofeo Bonfiglio.
Accade che oggi Flavia Pennetta ha battuto Simona Halep, n. 2 del mondo, spazzandola via come una perfetta novellina, lasciandole la manciata di quattro game, sfoderando un tennis stellare, a 33 anni suonati. Un tennis così avvincente e meraviglioso che quasi ti domandi, quasi con frustrazione, come sarebbe stata la carriera di Flavia, senza quegli infortuni e quella fragilità mentale che un po’ l’ha frenata, nonostante una carriera splendida e comunque indimenticabile. Ma con i se e i ma non si fa la storia. La storia, Flavia, l’ha fatta oggi. Due anni fa era praticamente fuori dalla top-150 e la sua carriera sembrava finita, un anno fa la vittoria a Indian Wells sembrava un ultimo, bellissimo canto del cigno, oggi raggiunge il suo risultato più bello in carriera. Oggi, nella sua New York, palcoscenico delle sue più belle vittorie, teatro dello schizofrenico match contro la folle russa Vera Zvonareva, dove salvò 6 match-point, alla vittoria contro Maria Sharapova nel 2011, alla semifinale raggiunta nel 2013 battendo – fra l’altro – Robertina.
Ma è stata proprio Roberta Vinci a fare il vero miracolo. Perché accade, sempre oggi, che la tarantina, 32 anni e un’ottima carriera, sì, ma senza acuti, batte – a suon di servizi, dritti e slice – la tennista, la sportiva migliore del mondo, probabilmente di sempre, Serena Williams. Che andava alla caccia di un risultato ormai ritenuto scontato, la conquista del suo primo Grande Slam e del suo 22esimo titolo, agganciando Steffi Graf.
D’altronde, chi l’avrebbe potuta più fermare? Avremmo capito una Petra Kvitova, una Vika Azarenka; ma, con loro eliminate, a sbarrarle la strada non sarebbe stata certo una veterana in declino sulla quarantesima posizione, che veniva da un’annata piuttosto deludente. Una che aveva un tennis elegante, certo, ma anche un po’ leggerino, che mai avrebbe potuto scalfire la sua forza, il suo gioco potentissimo e violento. Una che, a detta di tanti, in semifinale ci era arrivata più per fortuna che per altro, mica perché se la può giocare con le campionesse: Sharapova ritirata, Navarro, Jankovic e Ivanovic fuori, Bouchard che batte la testa nello spogliatoio, Kristina Mladenovic che nel terzo set dei quarti non cammina più. E invece no: oggi quello che tutti – tutti – si aspettavano non è avvenuto.
Oggi “la pulce Roberta ha battuto la gigante“, tanto per citare le parole di papà Vinci. Perché la vittoria di Roberta è una vittoria di tutti coloro che ci hanno creduto sempre, nelle loro possibilità e ci sono riusciti. Nonostante tutto. Perché Roberta Vinci stasera è la protagonista del tennis mondiale, e non solo una comprimaria, magari a fianco della più acclamata Sara Errani, o come prestigioso fanalino di coda tra le prime azzurre dopo Errani, Pennetta e Schiavone. Oggi c’è lei, soprattutto lei, che domani giocherà il match più importante della sua carriera per conquistare il suo primo torneo dello Slam. A New York.
“Today is my day, I’m sorry, guys”, ha detto Roberta ai microfoni dopo la partita, davanti ai tanti americani delusi nell’aver assistito alla disfatta della loro beniamina. “Anche per me, anche per me, c…o!”, aveva gridato, ben più infastidita dal tifo avverso, al termine del punto più bello dell’incontro.
Pochi momenti hanno scatenato in me emozioni così profonde, così viscerali, guardando qualcosa alla tv. É successo quando l’Italia ha vinto i Mondiali, nel 2006 (ancora risuona nelle mie orecchie le grida di Caressa, dimenticandosi per un attimo di essere giornalista, ma solo di essere un uomo, un italiano che celebrava la sua squadra sul tetto del mondo). Successe, pur non essendo credente, quando elessero Papa Bergoglio. E succede anche, ogni tanto, nei finali di qualche film, come Le Onde del Destino, Noi siamo infinito, Big Fish, o perfino Hercules, quando le Muse cantano e ballano e qualcuno, indicando il cielo, grida: “É il ragazzo di Phil!”.
In questa splendida corolla di ricordi intensi e irripetibili, un nuovo petalo si è levato, più splendente che mai, per me e per le decine di migliaia di italiani che hanno tifato, sofferto, gioito, urlato e infine pianto con queste due fantastiche ragazze, che hanno portato l’Italia sul tetto del mondo (del tennis). Roberta Vinci e Flavia Pennetta: una di loro domani vincerà New York, strappandolo alla grande Serena. Comunque vada, Flavia e Roberta oggi hanno dimostrato a tutti, con la loro impresa, qualcosa di molto più importante: i sogni si possono avverare.