Che non avrebbe vinto gli US Open era risaputo, ma che avrebbe gettato la spugna così presto, dopo appena il secondo turno, confortato tra l’altro da un tabellone non impossibile e dal recente titolo vinto sul cemento di Los Cabos, non era pronosticabile. E invece il Fabio nazionale ha dimostrato ancora una volta che quando il gioco si fa duro, lui non riesce a trovare la dimensione per giocare. Stavolta sembrava l’occasione buona per agguantare un possibile ottavo di finale contro, probabilmente, Roger Federer, ma il tennista taggiasco, che al primo turno con l’americano Mmoh era parso motivato e in uno stato di forma adeguato per affrontare la lunga cavalcata che poteva catapultarlo nella seconda settimana dello slam newyorkese, ieri ha dato vita ad una prova fiacca e priva di uno schema tattico adeguato per portare a casa il match. Che l’avversario fosse il modesto Millman, ventinovenne australiano numero 55 del ranking, poco importa, perché il Fognini visto ieri avrebbe perso con chiunque, perfino con un quarta categoria, tanto era immobile e privo di reattività nel primo set. E lui stesso lo ha confermato. 5 giochi subiti in un amen, uno dopo l’altro, ed errori a dismisura (74) che solo per un’oretta sono stati spazzati via da un buon secondo set, dove la ritrovata profondità dei colpi e la velocità di palla hanno permesso all’azzurro di allungare una partita che, comunque, non è riuscito a vincere. Troppo pochi i vincenti (30), di fronte ad un numero così alto di unforced, per non parlare della bassa percentuale di punti ottenuti con la seconda (appena il 36%). In conferenza stampa il ligure non ha accampato scuse, ammettendo tutte le sue responsabilità:
“Una partita pessima, c’è poco da dire. Lui solido, io molto falloso. Non mi ha dato fastidio il caldo, oggi si stava meglio dei giorni scorsi; ma se sbagli così tanto è giusto perdere, non c’è bisogno di un esperto di tennis per capirlo. Non ci sono scuse o alibi, ho giocato malissimo ed è giusto che abbia vinto il mio avversario“.
E dire che il cammino slam di Fognini, quest’anno, era iniziato abbastanza bene: battuto da un ottimo Thomas Berdych agli ottavi degli Australian Open, miglior risultato a Melbourne della carriera, sconfitto solo al quinto set da Marin Cilic al Roland Garros e fuori al terzo turno di Wimbledon per mano di Jiri Vesely. Quest’ultimo certamente non un risultato di spicco, ma nemmeno troppo inaspettato se si considera lo scarso feeling di Fabio coi campi in erba di qualsiasi nazione. Ma i tre tornei vinti in questa stagione, San Paolo, Bastad e Los Cabos, soprattutto l’ATP messicano nel quale ha estromesso in finale Juan Martin del Potro, avevano fatto presagire che la possibilità di arrivare lontano, nell’ultimo major stagionale, non fosse una chimera ma una realtà oggettiva. Ma oramai si è capito, e bisogna accettarlo, che con Fognini non si possono stilare programmi a lunga scadenza perché, qualsiasi sia il corredo di risultati che si porta sulle spalle, l’azzurro può vincere come perdere, può brillare come restare fermo, può lottare come arrendersi alla prima difficoltà e può resistere come lanciare la spugna dopo appena un’ora di gioco. Su di lui si è detto di tutto e di più, si è provato a trovare una ragione assoluta al perché di questi continui alti bassi e si è cercato di scovare cosa ci sia dietro ogni nuova sconfitta subita o provocata dall’asso ligure, ma la verità è che tutto (forse) sta dietro al suo carattere e al suo approccio al tennis. Per Fabio vincere non è una questione di vita o di morte: se riesce bene, altrimenti arrivederci alla prossima. L’azzurro soffre, tra l’altro, di condizionamenti attitudinali che sono dovuti in parte alla fragilità caratteriale, mascherata spesso da un’aggressività di facciata, e dalla consapevolezza di avere dei limiti tecnici in alcuni fondamentali, come la prima di servizio e il dritto, che lo rendono insicuro e nervoso. Fognini è un grandissimo giocatore che però difetta di quella propensione allo stakanovismo che, invece, hanno caratterizzato le carriere di tennisti come Ferrer (per esempio) o proprio Berdych. In più, ora, se si aggiungono gli anni anagrafici, che non sono più pochissimi, e il fatto che l’esigua esperienza maturata nell’affrontare match pesanti nel circuito maggiore, dal punto di vista psicologico, non gli hanno permesso di provare a superarsi, di cercare di sfaldare quel muro di difficoltà che differenzia un ottimo giocatore da un campione e ancor di più da un fenomeno, il cerchio si chiude. In alcuni match epici Fabio ha raggiunto questa completezza, ma poi è tornato ad essere lui, ovvero quel ragazzo che può ma non sempre riesce. Un altro problema col quale il tennista azzurro convive sono le aspettative che il pubblico di casa riversa su lui, aspettative che talvolta si tramutano in ossessioni dovute al fatto che il tennis italiano, non certamente un’officina che produce decine e decine di giocatori l’anno, cerca da tempo un supercampione e lui sembrava essere il diamante grezzo che avrebbe dato forma a questa speranza che si coltiva dai tempi del duo Panatta-Barazzutti. Ma esiste anche una verità innegabile, ovvero che Fabio Fognini un campione lo è e lo sarà sempre in base alle sue possibilità, che non sono quelle di un certo Nadal, per intenderci, ma che comunque gli consentiranno di non essere un nome qualsiasi all’interno degli almanacchi del tennis che verrà. E quando si ritirerà, nonostante tutto, si sentirà la sua mancanza, soprattutto in Davis.
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