La risposta sembra scontata, in realtà potrebbe non esserlo così tanto. Nella mia esperienza di maestro e di appassionato, mi è capitato più volte di vedere giocare ragazzi di tutti i livelli. Un fenomeno che spesso ho avuto modo di notare è che alcune differenze, sul piano del gioco, della tecnica, della potenza, della resistenza atletica, non sono visibili nel palleggio o nei classici “punti” di fine allenamento. Capita, spesso, di vedere partite tra giocatori di buona classifica, anche dei primi gradini della seconda categoria, ed assistere a scambi spettacolari, colpi incisivi e tecniche pulite. Ma allora, cosa manca a determinati giocatori per fare il famoso “salto di qualità”?
Ovviamente, la risposta è in molti casi soggettiva, mutevole da giocatore a giocatore, ma il proposito di questo articolo è quello di fornire alcuni spunti fondamentali per capire la direzione in cui si sta muovendo il tennis moderno.
Una prima considerazione, che può sembrare banale: non sempre lo scambio lungo è indice di qualità dei giocatori in campo. Anzi, spesso è il contrario. Ad oggi, soprattutto su superfici veloci, lo scambio si chiude entro i primi 10 secondi: ciò vuol dire servizio, risposta, e – a volte – un terzo e decisivo colpo del battitore. Anche sui campi in terra rossa, dove pure potremmo aspettarci un numero più elevato di scambi, il 75% dei punti si chiude entro i 10 secondi prima menzionati.
Ciò significa che è necessario essere dei formidabili battitori e degli (ancor più) formidabili ribattitori. Ora, razionalmente, verrebbe da pensare che, allo scendere del livello, tutti i colpi dovrebbero, più o meno, funzionare seguendo le medesime statistiche dei “pro”. Invece, l’esperienza concreta è assolutamente diversa: spesso ci si ritrova inceppati in faticosissimi scambi da fondocampo in cui battuta e risposta sono soltanto dei passaggi obbligati.
Novak Djokovic, considerato uno dei migliori ribattitori al mondo (se non il migliore), in una delle sue “golden season” (2014), ha servito il 67% di prime palle in campo e ha commesso appena un doppio fallo e mezzo di media a partita; ha vinto il 75% dei punti sulla sua prima di servizio ed ha vinto l’88% dei game alla battuta. Dunque, il miglior ribattitore del mondo ha anche numeri non indifferenti al servizio. Quanti di noi tennisti agonisti (ma non troppo) potremmo dire lo stesso? Eppure, di certo per fare un punto al nostro avversario non servirebbe una prima a 210 km/h, né una risposta violenta all’incrocio delle righe: è solo un problema di scelta. Spesso, il giocatore non professionista preferisce “non rischiare”, accontentandosi di una prima a media velocità o di una risposta appena sufficiente per iniziare lo scambio.
Altra caratteristica, tipica di un giocatore professionista, è la “proattività”, la costante ricerca del punto. Per valutarne l’incidenza è stato sviluppato da Bill Jacobsen il criterio del “Margine Aggressivo”, ovvero: “punti vinti con colpi forzati (dunque, anche winners), meno errori non forzati, diviso il totale dei punti giocati nel match; il risultato origina una cifra che, se espressa in percentuale, misura in modo oggettivo la capacità del giocatore di controllare l’andamento degli scambi in un match facendo pochi errori. È, in altre parole, una misura dell’equilibrio tra gioco aggressivo e gioco difensivo dello stesso e noi sappiamo quanto questo sia importante nel tennis moderno.” (Alberto Brignacca – “Una bellissima partita” – SuperTennis Magazine n.7 Luglio 2006). Innumerevoli studi successivi hanno confermato che, nel tennis professionistico, quasi sempre il giocatore con un miglior Margine Aggressivo vince la partita: vince non più chi attende l’errore dell’avversario, ma chi ricerca ogni punto con colpi studiati e forzati, dopo una corretta tattica di approccio al colpo finale
Quanti giocatori agonisti di livello medio possono, oggi, dire di cercare con costanza e perseveranza il punto, scambio per scambio? La famosa filosofia, tanto cara ai maestri soprattutto per gli allievi under 18 (“intanto non sbagliare!”), per la quale è preferibile sbagliare una palla in meno dell’avversario, porta a costruire, spesso, una tattica di gioco che è improntata non tanto a provocare l’errore mediante colpi efficaci, quanto a sperare nell’imprecisione dovuta a stanchezza, esasperazione, carenza di concentrazione. Sostanzialmente, fino a una certa fascia di livello, si privilegia la ricerca dell’errore avversario, piuttosto che del punto; tattica che mostra, inequivocabilmente, la sua debolezza confrontandosi con giocatori di una certa categoria.
Un interessante studio, presentato da Furlan e Brandi già nel 2007 e pubblicato dalla federtennis, evidenzia come, persino nel Roland Garros, le percentuali di Margine Aggressivo fossero evidentemente a favore dei vincitori, con una media finale di scarto del 12,3% tra vincitori e vinti (e picchi del 29%).
Dunque, piuttosto, che concentrare i propri sforzi sulla vittoria, si dovrebbe preferire (almeno in una prima fase) l’approccio proattivo, volto alla conquista del punto mediante una corretta strategia; il risultato dovrebbe arrivare da sé.
Tutto qui? No, di certo. Quelli proposti sono solo alcuni tratti di un mondo complesso e affascinante, molti altri possono essere gli argomenti e gli spunti; lo studio scientifico lascia il tempo che trova quando scendiamo in campo e, all’ennesimo errore gratuito, optiamo per un sano e sicuro pallonetto sul rovescio: perché in fondo, “chi dice che vincere o perdere non conta, probabilmente ha perso” (cit. Martina Navratilova).