Un lampo squarcia il vellutato panorama tennistico. Roger Federer, campione dell’ultimo Slam e, magicamente, fresco giovanotto promettente, viene regolato da Evgeny Donskoy, che lo batte in tre set di inusuale follia. Lo svizzero, ancora zebrato da una Nike genovese, si rende protagonista di un match altalenante, facendo sfumare cumuli di nitide occasioni con smorti fondamentali squilibrati, grossolani errori prodotti da una mente assente.
Leggo spesso, con immensa noia, le varie e fantasiose considerazioni sul nostro pupillo Fognini, descritto con imprevedibili ragionamenti come talento cristallino dal cervello mononeuronico, svogliato passeggiatore di campi da tennis trasformati in piacevoli luoghi di villeggiatura.
Guardando lo svizzero giocherellare col povero Donskoy, colpevole soltanto di oltraggiare la sacra sindone vivente, uno strano parallelismo prendeva vita nella mia mente.
La sconfitta di per sè, poi, non stupisce più di tanto. Se seguite questo sport con una certa costanza avrete già assistito, più e più volte, ad una incalcolabile moltitudine di partite della vita indovinate da sconosciuti interpreti della racchetta che, in tornei minori, estromettono campioni affermati.
La verità, inaccettabile per i sudditi ormai succubi del loro Imperatore, è una sola. Roger, comunque fluido e leggiadro per la solita cantilena secondo cui, soltanto lui, incarni la pure essenza del tennis stesso, non ne aveva la benché minima voglia.
Non gliene faccio una colpa, mai potrei in quanto segreto spasimante di Benoit Paire, ma ne riconosco senza problemi la palese ovvietà.
Anche l’immenso campione, eccelsa divinità superiore a qualunque creatura, pecca di superbia, grossolana e terrena.
Qui, però, non parliamo del sopracitato McEnroe, ma dell’algido Federer.
Dubai, grattaceli, aperitivi e neve sintetiche.
Il tennis? Tutto a suo tempo.