-Per un cronista come me, esistono giornate difficili. Quella di oggi, si classifica tra queste, dovendo commentare, obbligatoriamente, una partita che non è esistita. Sia chiaro, il candido Pouille non ha colpa alcuna, o meglio, ne ha in quantità proporzionalmente minori di quanto siano i meriti di Djokovic, ma partiamo dal principio. Le statistiche raccontano molto della sfida odierna. Djokovic, con nessuna palla break concessa e 8 punti persi su 53 giocati, ha invece un iconico 47% di quindici vinti in risposta. Approssimando lievemente per eccesso, ogni due servizi del francese equivalevano ad un punto di Djokovic. Curioso, una simile percentuale è comune nei match giocati dall’Errani e ciò basta per comprendere quanto, in un incontro maschile, l’evento sia fuori dal comune. Il serbo commette poi, in 22 giochi, 5 errori gratuiti, uno ogni quattro game e mezzo. Ieri scrivevo di un Nadal che, sin dal primo gioco, mirava ad intimorire l’avversario facendo subito capire chi fosse il sovrano all’interno del rettangolo di gioco. Rafa ti spaventa, sin dal palleggio di riscaldamento, dove, dichiarazione dei suoi tanti avversari, è colui che tira più forte tra tutti. Djokovic, invece, ha una strategia diversa. Giocare con lui è frustrante. Con sadica predisposizione all’altrui sofferenza inizia dal fondo a palleggiare, incrocia rovesci morbidi con i quali ha il solo scopo di acquistare ritmo sfinendo pian piano l’avversario. Poi, inizia a correre, in questo cinico gioco nel quale, più trovi un angolo stretto, più lui lo restringe a sua volta. Una morsa, dalla quale nemmeno accelerazioni lungolinea, teoricamente le più efficaci sul cemento, riescono ad uscire. Chop di dritto colpiti in spaccata fluttuano in aria terminando la loro corsa nei pressi della linea di fondo. Pouille pensa di aver appena impattato un vincente, invece là, torchiato sui teloni con le elastiche movenze di un geco, l’ossessiva difesa rimette in gioco una nuova palla. Dopo la terza accelerazione, è matematico il gratuito. Fino al match non giocato con Nishikori, il serbo pareva essere parente lontano dell’imbattibile macchina da tennis programmata per creare un ferreo regime dittatoriale in terra australiana. Dopo la sfida di oggi, però, appare evidente il motivo per il quale, in oltre dieci anni, Nole non abbia mai perso, in questo torneo, una partita tra semifinali e finali. L’ultimo atto con Nadal è il migliore che si potesse chiedere, ma analizziamo la sfida dal punto di vista tecnico. Gli unici, storicamente, ad essere stati in grado di mettere in difficoltà, o addirittura battere, il migliore Djokovic in queste condizioni di gioco, sono stati Federer e Wawrinka. Il primo, con un gioco improntato all’attacco, il secondo, con fondamentali da fondo talmente pesanti da non avere eguali nel circuito. Chi ha provato a demolirlo con la sola costanza del palleggio, come Nadal nel 2012, ha finito per cedere. Sì, mi rifaccio al precedente di sette anni fa per citare un maiorchino in condizioni fisiche mostruose, capace di sostenere ore di maratona sfiancante. Oggi, quel giocatore, non esiste più, per logici motivi anagrafici. Come può Nadal pensare dunque di tornare al successo in Australia, divenendo l’unico tennista della storia ad aver vinto almeno due volte ogni titolo Slam? Solo interpretando, con l’aggiunta di un servizio migliorato tecnicamente, lo stesso piano di gioco già messo in atto a Wimbledon. Prendere rischi, a costo di commettere errori. Scendere a rete, a costo di essere passato. Spingere con il lungolinea di rovescio nonostante questo vada sul rovescio di Djokovic, che si ritroverebbe con il campo aperto in diagonale. Una tattica che non conosce mezze misure, alla quale non può in nessun modo venire meno la prima di servizio. Il serbo partirà, ovviamente, con i favori del pronostico. Rafa, però, mai come oggi, ha le caratteristiche per poter battere il miglior Nole nella propria superficie prediletta. La finale che tutti attendevano è ora realtà. L’atto numero cinquantatré di una rivalità divenuta leggenda.
Dal vostro cronista è tutto, a domani.