In un’epoca nella quale il prototipo classico di giocatrice in gonnella altro non è se non una robotica macchina sparapalle, dotata di potenza in quantità inversamente proporzionale alla ragione, è curioso notare come, ai vertici della classifica WTA, finisca sempre, negli ultimi tempi, una regolarista. Eccezion fatta per la coppia Muguruza-Pliskova, inconsapevolmente ai vertici delle graduatorie a causa di una favorevole congiunzione astrale, dal 2016 ad oggi hanno ricoperto la carica di numero 1 tre atlete che hanno fatto della loro asfissiante costanza l’arma chiave attraverso cui vincere titoli e guadagnare posizioni. Simona Halep, Angelique Kerber e Caroline Wozniacki rappresentano con limpidezza disarmante il controsenso capace di animare il tennis femminile, sport che già in sé racchiude migliaia di sfaccettature simili ma incoercibili tra loro. Se ad oggi è prassi, ad una giovane intraprendente volenterosa di costruirsi una carriera nel mondo del tennis, insegnare uno stile di gioco estremamente aggressivo, fatto di volgari pallate e fondamentali violenti, colpiti spesso con la massima forza possibile, è invece la categoria delle “pallettare” a spiccare con prepotenza, prendendosi tutti i riconoscimenti di maggiore importanza. In un panorama dedito all’attacco sconclusionato, dove mirabili donzelle armate di clava e padella si scontrano tra loro in una lotta all’ultimo sangue somigliante più ad una volgare rissa stradale piuttosto che ad un match di tennis, a trionfare è l’estrema difesa, che soffoca il collerico neurone, nomade nella testa delle tiratrici, e sopperisce alla mancanza di potenza spesso palesata, al confronto con le altre, dalle interpreti della fruttuosa tattica. La sfida simbolo dell’inizio di questa fase storica è da ricercare nella finale degli Australian Open 2016, dove Angelique Kerber, ottenendo il suo primo titolo Slam, batté Serena Williams. La teutonica, che da quel giorno divenne “terzino”, passò ore accasciata al suolo, torchiata sui teloni rincorrendo i tentativi di vincente dell’americana, esasperata dal muro di Brema nato un anno prima del crollo dell’altro muro, quello di Berlino, datato 1989. Da quell’istante, dall’immagine della Kerber in grado di abbattere l’imbattibile e portare al potere la classe operaia, la rivoluzione ha preso piede, applicando ora, alle soglie di uno Us Open nuovamente incerto, l’imprevedibilità totale ad un tabellone che vedrà una decina di teste di serie uscire miseramente al primo turno. Simona Halep guida il plotone delle attendiste, che pur provano, nelle loro giornate migliori, a prendere in mano le redini del gioco tentando di spingere la palla e scrivere le trame dell’incontro, salvo poi ottenere il successo, nei match che contano davvero, grazie alle incredibili doti difensive portate in dote. In pochi si innamorano del loro stile, in molti dell’attitudine perfetta che queste atlete sono in grado di gettare con ostinazione sul campo, senza lasciare che la minore prestanza fisica, schiacciandole tra le fibre muscolari delle altre, le tolga fiato e tempo di esecuzione. Sono anche, tatticamente parlando, le più intelligenti, capaci di contare, a differenza delle colleghe tecnicamente ipodotate, su un ventaglio di colpi ed un piano di gioco superiore e vario, facendo così della completezza, intesa sotto tutti i punti di vista, l’arma migliore. La stagione volge lentamente al termine e, nonostante l’alone del feroce peso di palla aleggi insistentemente tra circoli ed impianti professionistici, gli Slam fino ad ora disputati hanno visto imporsi i tre nomi sopracitati, che occupano ora le posizioni 1, 2 e 4 del ranking mondiale. Sarà un caso, oppure forse la banale dimostrazione di come il cervello, anche e soprattutto nello sport, si riveli essere decisivo ancor più della rozza forza bruta.