Basta.
Sono serissimo, non ne posso più.
Il tennis mi ha stancato. Mi ha stancato guardarlo, scriverne, parlarne, discuterne giornalmente rubando tempo alle mie giornate che avrei potuto impiegare per fare altro.
Basta, sono serissimo.
E’ sempre uguale, la medesima storia scritta cambiando posizione a qualche virgola. Sempre gli stessi termini, gli stessi tornei, gli stessi nomi. D’altronde, di cosa mi lamento. I nomi sono quelli perché altrimenti nessuno legge gli articoli. O sbaglio? Dai, siate sinceri, chi aprirebbe mai un link che, in centocinquanta righe, narra la tragica storia di un dilettante paraguayano costretto ad allenarsi guardando in replica la ‘prova del cuoco’ come unico svago in una vita colma di sofferenze? Nessuno.
E se Federer, invece, annunciasse la nascita di una coppia di merli nella terrazza della propria tenuta estiva, chi avrebbe il coraggio di sottrarsi dalla lettura di una notizia tale? Nessuno, ugualmente.
Siate sinceri, il tennis non piace a me, ma nemmeno a voi.
È sempre la solita storia: sono i nomi ad attirare, non il gioco.
Non vi biasimo, per niente. Pensate io mi diverta nel trattare con minuziosa dovizia (nonché finto entusiasmo utilizzando, magari, qualche punto esclamativo) le strabilianti doti tecniche di Albert Ramos-Vinolas o, ancor più spassose, le entusiasmanti vicissitudini sentimentali di una Suarez Navarro dall’angelico rovescio? Mi repelle tutto ciò, esattamente come repelle voi. Sono costretto, però, rinchiuso nel vortice di un sito che mi obbliga a scrivere articoli su articoli, facendo breccia nella mia fragile psiche con la minaccia di sottopormi a sfibranti ed intense sedute di torture, ideate dalla mente malvagia del nostro caporedattore che proietta le briose immagini di un match storico, Isner-Mahut Wimbledon 2010 (undici ore e cinque minuti), utilizzando come sottofondo inebrianti melodie di Allevi in si bemolle.
Una volta arrivati ad inizio quinto set, credetemi, sopportare una tale agonia diventa sfida dura.
Ma basta, basta parlare di tennis.
Lo odio, punto. Sì, lo odio in ogni suo dettaglio, e l’ho sempre odiato.
Anche nel 1985, quando al Madison Square Garden Hana Mandlikova irrideva un’inerme Martina Navratilova con quel pallonetto di rovescio che cadde all’incrocio delle righe. Persino nel 1969, all’epoca di un Grande Slam targato Rod Laver che divenne il primo ed unico uomo in grado di compiere un’impresa tale. L’ho odiato nel 2001, quando un Goran Ivanisevic alla quarta finale vinse Wimbledon entrando in tabellone grazie ad una Wild Card. Nel momento in cui Sampras, sovrano indiscusso dell’erba più pregiata, è costretto in quello stesso torneo a cedere il passo ad un giovane Federer, devoto al serve&volley come mai più sarà in carriera. L’ho odiato quando, dopo un mesto finale di carriera decantato da tutti, Rafa Nadal ha vinto il decimo titolo al Roland Garros. Quando Novak Djokovic, ormai stremato, ha chiuso in Australia una sfida con Wawrinka che sembrava non voler finire mai. L’ho odiato nel momento esatto in cui Artur Ashe, alzando al cielo il trofeo di Wimbledon, ha indelebilmente segnato la storia dello sport e di un’intera etnia.
L’ho odiato, come forse mai, assistendo ad un accoltellamento per il quale Monica Seles non aveva colpa. La finale di Wimbledon 1980, una volee di rovescio accarezzata da Edberg, il servizio ‘bum bum’ di un Becker troppo giovane per avere la patente. La battaglia dei sessi per una parità ottenuta con i denti, quella vittoria nel ’76 che fece tingere d’azzurro Parigi, la sfida tra Taranto e Brindisi che, dal tacco dell’Italia, si è spostata a New York.
L’ho odiato guardando per la prima volta una riposta anticipata, con quei capelli biondi lunghi fino ai jeans. L’ho odiato quando ho saputo che l’ha odiato anche lui, così spaventato da nascondersi dietro una parrucca.
L’ho odiato ancor di più quando ho saputo che, forse, non lo odiava davvero.
L’ho odiato perché in fondo non lo odiavo neanch’io.
L’ho odiato perché so che non lo odiate neppure voi.
L’ho odiato perché senza non riesco proprio a starci.
L’ho odiato, sì, ma poi neanche troppo.
L’ho odiato.
Saluti, alla prossima.