Fabio Fognini 7.5: Il ligure è troppo bravo per cedere al cocciuto bombardamento di Tursunov e Vesely.
Raggiunge quindi un terzo turno che poche volte (tre) ha disputato su questi campi, conquistando così un match con Andy Murray che, come premesse, pareva non proprio scontato.
Ne esce una disputa a tratti spettacolare, con Fabio purtroppo incapace di portare la sfida al quinto ed iniziare, dal nulla, un ultimo parziale nel quale l’impresa sarebbe stata possibile. Bravo, ma manca sempre qualcosa.
Ernest Gulbis 7: Eclettico milionario che pensa ai campi da tennis nei weekend (ma non il sabato sera) e raggiunge il terzo turno di Wimbledon, battendo Del Potro e sfidando Djokovic sul campo centrale.
A malincuore, l’impegno richiesto per fare sua la sfida con l’infermo serbo è troppo, motivo per il quale, mostrando al mondo l’osceno dritto che diventa senza ostacoli il più brutto mai visto su un campo da tennis, cede in tre miseri set.
Poco male, con il montepremi guadagnato si pagherà qualche serata nella bella Riga.
Stan Wawrinka 2: Toro sul ghiaccio che, testardo, non riesce e non vuole cambiare tattica. Fuori con un Medvedev qualunque, descritto con estrema rapidità come futura promessa del tennis quando, in realtà come molti, non è niente di che.
Picchia, picchia, ma sull’erba è troppo lento.
Probabilmente si rassegnerà all’idea di non vincere Wimbledon.
D’altronde, “l’erba è buona solo per le mucche” (cit.).
Rafa Nadal 5: Non capisco. Nadal, nei primi tre match del torneo, mi aveva impressionato. Cercava un anticipo per lui insolito, provando, per quanto gli fosse possibile, ad accorciare le ampie aperture che così tanto, sulla terra, gli hanno regalato. Poi? Quarto turno con Müller (9, di più era impossibile chiedergli), grande battitore e giocatore serve&volley. Regressione totale.
Risposte giocate quattro metri fuori dal campo, parabole incrociate preferite ai lungolinea, ostinato rifiuto del back di rovescio. Sconfitta meritata, in un match diventato a suo modo storico per lunghezza, dinamiche ed intensità.
Saluta Wimbledon con l’amaro in bocca, consapevole di aver perso una buona chance per arrivare in fondo.
Tomas Berdych 8: In condizioni normali, il ceco avrebbe perso in tre set ai quarti di finale, quando, opposto a Novak Djokovic, avrebbe giocato la solita ottima partita finendo poi per sgretolarsi nei momenti decisivi. Il copione, visto e rivisto, viene invece recitato con Federer.
Per Tomas, questo, rimane comunque un grande risultato, probabilmente insperato alla vigilia. La differenza tra un gran giocatore ed un campione sta tutta nel modo in cui, entrambi, affrontano le difficoltà.
Ancora una volta, e forse di più, la semifinale ne è stata una perfetta dimostrazione.
Andy Murray 4: Lamenti continui, incessanti e disperati accompagnano fedelmente l’intero torneo dello scozzese, salice piangente che zoppica tra un punto e l’altro per poi prodigarsi in magistrali recuperi su palle corte imprendibili.
Murray, anche in condizioni fisiche ottimali, questo torneo non lo avrebbe mai vinto, troppo fragile per resistere e superare l’infinita pressione del vedersi detentore del titolo e prima testa di serie.
Esce ai quarti di finale per mano dello stesso Querrey che batté Novak Djokovic dodici mesi fa.
La prima metà dell’anno è stata disastrosa. Considerando che sarà la seconda ad essere, per lui, davvero impegnativa, l’umore, da qui in avanti, non potrebbe che essere dei peggiori.
Sam Querrey 9: Torneo della vita con il quale raggiunge la sua prima, e probabilmente ultima semifinale Slam. Gran servitore, inquietante sotto la rigida visiera da cui traspare il suo sguardo malvagio, ma incredibilmente intelligente nello sfruttare al meglio le caratteristiche della superficie su cui si trova a giocare.
Batte Murray in rimonta, dopo essere stato sotto due set a uno.
Tante battaglie, tanto fiato sprecato, ma la concentrazione, in Sam, non è mai mancata. Wimbledon ama i grandi servitori e lui, prontamente, risponde all’occasione gentilmente offertagli dal cielo.
Marin Cilic 8: Il primo giorno di Wimbledon, dopo aver visto il croato maltrattare sadicamente le delicate resistenze del cerbiatto Kohlshreiber, scrissi di prestargli grande attenzione, perché quel ritmo e quell’aggressività mi ricordavano, alla perfezione, quelle viste sui campi americani durante lo storico Us Open del 2014. Così è stato infatti, fino alla finale.
Entrato in campo con le giuste idee, attaccare un Federer non troppo esplosivo, d’un tratto si spegne, dopo aver giocato appena cinque game. Lacrime improvvise e devastanti gli inondano il volto solitamente composto. Non ci è dato sapere cosa sia successo. Opto, razionalmente, per una crisi di nervi, perché di infortuni non se ne aveva traccia. È un peccato, perché ci ha privato di una finale, il che, ovviamente, genera sempre dispiacere.
Avrà modo di rifarsi, ma gli Slam non sono alla sua portata.
Roger Federer 10: C’è un grande rischio quando, in questi casi, si parla di Federer, ed è quello di cadere nella monotona banalità. Ovunque leggerete lodi, proclamazioni e lettere d’amore. Superbo, leggenda, eterno.
Sì, tutto questo è Roger Federer, ma non solo. Più delle vittorie, dei numeri e dei record probabilmente insuperabili, colpisce una cosa. La voglia, a quasi 36 anni, di giocare a tennis.
Ed è un gioco sincero, il suo, nel quale racchiude tutto se stesso. Non c’è più, come un tempo, la tremenda paura di non essere perfetto al punto in cui tutti continuavano a descriverlo.
Ora, in Roger, c’è solo voglia di giocare, divertirsi e divertire, vivere momenti d’emozione con la consapevolezza che, presumibilmente, saranno gli ultimi.
Non c’è solo tennis, ma qualcosa di più. Qualcosa di reale, che rende ipnotico Roger Federer.
In Australia fu stupore, oggi consapevolezza. Il ritorno al vertice del più grande giocatore di tutti i tempi.